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Questo romanzo breve ambientato intorno alla metà del 1400 narra le avventure del giovane chierico Leonardo. Il nostro personaggio parte da Casale Monferrato alla volta di Parigi per completare gli studi religiosi, ma viene derubato di tutti i suoi averi e così si ritrova ad aggregarsi un po' per simpatia e un po' per disperazione ad una balorda compagnia formata da personaggi singolari fondatori di una religione alternativa, I Fratelli del libero spirito. Così iniziano le avventure che accompagneranno Leonardo alla scoperta del "nuovo mondo". Tra riferimenti a fatti storici realmente accaduti e quella vena di sarcasmo tipica di Vassalli, che gli permette di criticare sempre in maniera sottile ed elegante le magagne e il marciume del genere umano e le sue istituzioni, ci si addentra in un piacevole viaggio. Ci si sente trasportati, si ride, qualche volta amaramente, e si riflette. Leggere Vassalli è sempre un piacere, ci si sente arricchiti.
Vassalli e' (purtroppo era) un grandissimo narratore di storie e anche questo suo gioiellino lo dimostra. Mostra anche un'altra caratteristica di questo bravissimo scrittore, quella di mantenere costantemente un elevato livello qualitativo in tutto il suo percorso letterario, cosa che non e' riuscita a molti scrittori italiani degli ultimi 30 anni (forse eccettuato Italo Calvino).
Concordo con ele. Forse un po' troppa retorica. Interessante lo spunto peccato non sia stato approfondito. Ci si attiene al diario del chierico, con un po' di fantasia sarebbe stato più interessante secondo me, ma probabilmente era proprio quello che vassalli non voleva, dato che più volte i suoi commenti sono rammarici per episodi che purtroppo non sono stati approfonditi nel diario da cui ha tratto la storia.
Recensioni
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Il presente, ormai da tempo, non interessa quasi più a Sebastiano Vassalli. Del resto, già all'altezza della Chimera (Einaudi, 1990), il presente non poteva contenere nulla che meritasse d'essere raccontato, perché insostenibilmente rumoroso: "milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l'una con l'altra, la parola io. Io, io, io...". Allora, come ora, l'unica via per tentare di comprenderlo era "uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla". Il nulla. Il nulla come inerzia vitale, l'esistenza come movimento mortale. Secondo la legge di Tang Lung (3012, Einaudi, 1995): "la materia è inerte, e la vita è la sua malattia". Il movimento come male, l'immobilità come promessa di salvezza: nel tempo come nello spazio. Un'immobilità che, nel primo come nel secondo caso, si sarebbe anche potuta in qualche modo narrare. Più facilmente narrabile però, dell'uno come dell'altro, il movimento anomalo. Del tempo, perché venga compreso una volta per tutte dell'eterno, ineluttabile girotondo che lo incatena a sé, dell'urobòros, il serpente che inghiotte se stesso; dello spazio, perché se ne accetti il principio di una fondamentale erosione destinata, prima o poi, a provocare il collasso della materia malata che vi è disseminata e lo dissemina. Anomalia. Che fa rima con follia. La follia della ricerca di una impossibile purezza o semplicemente, pensando all'amatissimo Dino Campana, la purezza della follia. Destinata a rimanere tale, come già quest'ultimo romanzo di Vassalli promette fin dal titolo: Stella avvelenata.
Un titolo che è il cortocircuito espressivo di un cortocircuito mentale accarezzato, corteggiato, inseguito dal tempo della frequentazione proprio con il poeta di Marradi, lo scemo del paese. Cifra nascosta eppure così eloquente, la stella avvelenata, di una purezza raschiata fino in fondo, quasi ischeletrita, a tratti, nella sua prepotente elementarità; come elementare, nella sua vaga adesione al fiabesco, è del resto lo stile stesso dell'autore, tanto semplice da apparire ingannevole. Uno stile che però, lo diciamo a chiare lettere, non ci piace più molto. Come, in generale, non ci piace più molto la narrativa dell'ultimo Vassalli, di cui quest'ultima un po' diafana prova non costituisce eccezione.
Una traversata oceanica alla ricerca della mitica terra di Atlantide, compiuta intorno al 1440 da un chierico di Casale, tale Leonardo Sacco, e raccontata più di due secoli dopo, nel Viaggio anacronismico nell'isola di Atlantide (1768), da un sacerdote suo discendente, Isacco Sacco. Ventotto tra uomini e donne, compreso il chierico, gli imbarcati per quella impresa di pazzi sulla Stella Maris, di un armatore fiammingo che l'aveva fatta costruire per trasportarvi, alla volta di Atlantide, i perseguitati Fratelli del Libero Spirito. Guida la spedizione Pieter Cat, un vecchio capitano che in quella mitica terra, quarant'anni prima, c'è già stato e ne è rimasto stupefatto come di un ritrovato Paradiso Terrestre. I ventotto partono così per quell'incredibile viaggio, impegnati a difendere la causa del Libero Spirito e desiderosi di fondare sotto la guida del reverendo d'Ulbach, il capo spirituale del movimento, una nuova colonia di pace, governata dai principi della ragione e del piacere ("Lo Spirito, infatti" - sono le parole dell'austero predicatore - "ci ha dato la ragione perché possiamo conoscerlo; e ci ha dato il piacere perché possiamo amarlo"); tra di loro, oltre al reverendo e alla sua compagna Berthe, il chierico Leonardo, il capitano Cat, l'armatore fiammingo e sua moglie e una serie di altri curiosi personaggi, tra i quali diversi delinquenti comuni che hanno abbracciato il nuovo credo per ragioni di opportunità.
Giunti in Atlantide, le Americhe prima della scoperta di Colombo, i nostri eroi ritrovano nei primitivi abitanti di quei luoghi selvaggi, i protouomini, nel racconto di Leonardo chierico ("Dopo aver scartato 'uomini selvatici' e anche 'atlantici', perché l'Atlantide era l'invenzione di un filosofo mentre quegli uomini erano fin troppo reali, il nostro cronista passò in rassegna alcuni altri nomi, soffermandosi in particolare su quattro: 'nuovadami', 'alieni', 'indigeni' e 'protouomini'; e alla fine scelse quest'ultimo"), una predisposizione alla ferocia della guerra che non ha proprio nulla da invidiare a quella sperimentata nella vecchia Europa.
La materia narrativa, a questo punto, non può più essere trattenuta nell'alveo originario, nell'iniziale progetto di una incontaminata, folle purezza. Non c'è nulla di puro, di follemente puro, nella natura degli uomini, anche quando sia consentito a un soprassalto d'esistenza di coglierli allo stadio di protouomini. Gli uomini sono, da sempre, per lo più consapevolmente impuri. In ogni dove e in ogni tempo. Il puro Leonardo, prima di intraprendere con i pochi sopravvissuti il viaggio di ritorno (cui si è aggiunta l'egualmente pura, e ormai sottratta alla condizione di selvaggia, Ononhia-Angela, futura sposa del chierico), ne prende tristemente atto; per quanto in cuor suo, però, già lo sapesse. Prende atto della malvagità di quella natura, che "in nessun luogo può essere diversa" perché, per l'appunto, "è uguale per tutti ed è uguale ovunque". Perché, se anche potesse rinascere su una stella o sulla luna, l'uomo recherebbe sempre con sé la colpa dell'origine, "ripeterebbe il gesto di Caino e sarebbe condannato a espiarlo"; la sua stella o la sua luna sarebbero, sempre e comunque, avvelenate. Come la sua scrittura o la sua arte, avvelenate dall'aspirazione a una grandezza che si alimenta delle celebrazioni del presente per compensare forse, con il facile consenso dei contemporanei, l'implacabile oblio cui la costringeranno i posteri.
Ma all'oblio sono costretti anche i pazzi come Campana o l'anacronismico Leonardo, le cui incredibili storie non saranno mai credute e saranno presto dimenticate. È il paradosso della letteratura secondo Sebastiano Vassalli. Perché "anche i libri, come gli uomini, sono spesso condannati a mancare i loro appuntamenti con il tempo", anch'essi sono spesso anacronismici e quelli di Vassalli, come di Campana, più di altri. Anch'essi, dunque, sono destinati a subire l'azzeramento dalla memoria. Almeno finché il pensiero di Dio, attraverso l'ennesimo pazzo visionario, attraverso un altro Biagio lo scemo o un altro Mattio Lovat, testimoni di un mondo che fu o che sarà non importa, non avrà deciso di rivelare all'umanità "che la poesia può giovarle soltanto a una condizione: d'essere fuori del tempo e dei suoi traffici. Un ponte sull'infinito, un messaggio lasciato a chi non c'è da chi non torna più indietro" (La notte della cometa, Einaudi, 1984). O forse no. Forse Dio, "che conosce il prima e il dopo e le ragioni del tutto", non può rivelarci alcunché "per quest'unico motivo, così futile!: che non esiste". Pazienza. Non sarebbe d'altronde la prima volta. "Ci sono storie" - afferma Timodemo (Un infinito numero, Einaudi, 1999) - "che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero. Sembra incredibile ma è così".
Ci sono romanzi, diciamo noi, che sopravvivono nel tempo perché i loro autori conoscono soltanto una piccola parte del mondo e perché nessuno di essi aspira a vederlo per intero, accontentandosi di quel poco che scorge e finanche della totale mancanza di vista. È la vendetta del buio sulla luce, qualunque siano le spoglie sotto le quali si trovi celata. Sembra incredibile ma è così. Proprio quel buio, peraltro, quell'andare in fondo alla notte che piace tanto a Vassalli. Che ha immaginato non casualmente, per il prossimo passaggio della cometa di Halley, la nascita di un nuovo poeta puro e folle il cui cielo, come era stato già per Campana, sarà un cielo "non deturpato dall'ombra di Nessun Dio".
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