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Anno edizione: 2016
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Titolo: Scuola di nudoAutore: Walter sitiEditore: EinaudiData: 1994Rilegato. Sovraccopertina. Il libro presenta i classici segni del tempo. Dedica dell'autore al precedente proprietario.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
davvero una gran menata... se certe cose raccontate sono vere, l'autore non ha che da vergognarsi
Fantastico.Molte frasi sono una guida,una luce per comprendere la realta' della vita.Un libro indispensabile,necessario.
Bellissimo, riesce ad essere profondo e toccante e al contempo leggero e divertente.
Recensioni
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recensione di Madrignani, C., L'Indice 1995, n. 3
Grande libro già nelle proporzioni, seicento pagine fitte e calcolate in ogni movenza. È un'autobiografia scritta col provocatorio intento di svelare tutta la verità su se stesso, senza indulgenze, pietismo, semmai con un tocco patetico di autocommiserazione. La logica è quella di mostrare tutte le proprie meschinità e vigliaccherie, con una voluttà dell'abiezione e della deformazione che ricorda certa pittura di Bacon (naturalmente, 'si parva licet' ecc.), per poter poi usare lo stesso metro con gli altri personaggi. Il quadro complessivo è quello di una sporca città di provincia che non ha nulla da invidiare alla topica narrativa iniziata da "Madame Bovary". Con un effetto di concentrazione di grande efficacia l'io narrante limita ulteriormente il campo visivo, dando un risalto particolare all'ambiente accademico. Su questo sfondo il rapporto fra viltà del narrante e soperchierie e velleitarismi dei colleghi risulta oggettivamente a favore del meschinello, che ascolta e registra allibito più che scandalizzato, le pianificazioni dei più potenti colleghi, che hanno le stimmate dei baroni rossi (il gustoso episodio che vede il povero personaggio chiedere lumi a un pezzo grosso del Pci serve a esaltare l'ingenuità dello sprovveduto protagonista).
Nelle antitesi debole/forte, ingenuità/astuzia, bene/male si gioca tutto il romanzo, al cui intento disvelatore presiede più il tipo di confessione vera a tutti i costi di Rousseau che la filtrata e bistrata memorialistica di Proust. L'autore sembra pungolato da una furia di verità che genera una sorta di 'mise en abŒme' in cui si va alla ricerca di una verità senza fondo, un rincorrersi affannoso e brutale di confessioni e rappresentazioni al di là di ogni pudore. C'è qualcosa di forte in questo sistema di autoanalisi sempre più abiette: l'io che confessa le frustrazioni, la meschinità dei suoi pensieri, l'ignominia degli amori mercenari, gli inganni, le machiavellerie di basso conio che lo legano in strane amicizie, divise tra sentimentalismo umoroso e cinismo postribolare, risulta alla fin fine un personaggio dotato di un'indefinibile virtù. Raramente uno scrittore ha tirato la corda con un'ostinazione autodistruttiva perseguita con tanta rigogliosa e studiata pazienza. Non c'è limite al male che s'annida dentro all'uomo, la sua creatività è indefinita; il narratore si fa pedantesco catalogatore delle proprie infamie (in effetti a tratti emerge un filo di noia ripetitiva).
La sfida di Siti a mettere sotto gli occhi di tutti le viscere pulsanti della sua lacrimosa e indecente interiorità è una ricerca del vero che si trasforma in una 'quˆte' letteraria. In questo particolare genere romanzesco si deve dire tutto, facendosi beffa di ogni conformismo, ma non infrangendo le regole che informano la "confessione". Quello che conta non è tanto rispettare le leggi del patto autobiografico, di cui ogni autore "si dimentica", quanto sfidare il racconto e la lingua a esprimere tanta perversa voluttà di esternazione.
Non è un parlare a ruota libera, un'oralità trasferita sulla pagina, ma un'indagine su se stesso che sa esprimersi con un suo linguaggio. Trovo ammirevole che Siti faccia un uso moderato del dialetto freudianeggiante a tutti noto: egli vuole che la sua (chiamiamola così) spontaneità effusiva trovi buona accoglienza presso i lettori colti e smaliziati. C'è compenetrazione fra ricerca della verità e modalità di espressione: dire tutto attraverso una trascrizione di controllata abilità descrittiva che tocca in alcuni casi anche felici momenti mimetici, sfiorati dall'estro parodico. Il flusso di questo straripante parlarsi accoglie un numero elevato di invenzioni stilistiche. Il nemico da battere è la noia di un discorso monologante che sembra non darsi limiti. Il sesso ha grande rilievo in questa presentazione di se stesso. E qui tutte le variazioni vengono sperimentate. È sesso vile, facile, alla portata della borsa di chi s'invaghisce; ma è anche sesso terribile, mostruoso, di un egoismo statutario, in cui il protagonista è vittima dolente e piagnucolosa, ma a sua volta sa usare le stesse armi della viltà, della sopraffazione, del cinismo. Il richiamo è palesemente a Pasolini (ma si sente in lontananza certo Gide) e direi che le variazioni sul tema ossessivo del sesso sono una sfida alle degustazioni fallocentriche di "Petrolio", senza quell'aura manieristica di difficile raffinatezza propria del Pasolini più navigato. Il narratore non sente la maledizione del sesso e della diversità e gli è estranea l'auscultazione del sociale. È un io elefantiaco che invade tutto il terreno abbacinato dalla suprema ambizione di dire tutto, di aprirsi per esporre al ludibrio di tutti tutte le infamie, piccole o grandi e quasi sempre ripugnanti e avvilenti, di una carriera di meschinità esemplare sul piano di un privato posseduto dai demoni di una vigliaccheria e di un egoismo perversamente polimorfi. Le rappresentazioni sono guidate da una dinamica verso il basso, verso un modo di essere, collettivo e singolo, degradato e meschino; nessuna forma di idealizzazione interviene ad attenuare tale miseria, neppure l'impulso al maledettismo o il rifugio in una totalità negativa. Genet immette la sua abiezione in un sistema che attende (o teme) il suo riscatto da un'apocalisse incombente. Quella di Siti è una "scuola di nudo", nel senso di mostrare i personaggi nella loro sgradevole nudità con le loro segrete pulsioni a sopraffare, ingannare, avvilire. Ma c'è un'altra nudità, unico elemento positivo in questo crogiuolo di bassezze, ed è la bellezza del nudo come oggetto dell'ammirazione erotica. Quando viene descritto l'atto sessuale, lo si fa con padroneggiamento di una lingua sicura e precisa, fuori da ogni scandalo, ma l'eros prevalente e avvolgente è quello di un voyeurismo esplicito, una manitestazione di innamoramento esplosivo, che innesta al tono rancoroso o implorante la nota della vibrazione estatica che sopravvanza folgorante e imponente. Non c'è nessun segno di estetismo o dandysmo provocatorio; più che un fiotto di sensualità i corpi nudi innescano il piacere di una visione appagante e fantasiosa, l'unica maniera di uscire dallo stretto oscuro di una vita meschina e frustrata.
Il narratore fa un uso molto accorto di queste aperture apollinee. Anche in questo caso si rivela un esperto applicatore di astuzie narratologiche (da Genet a Genette, verrebbe fatto di pensare) nell'alternare i diversi motivi di un drammatico, trafelato vissuto. L'opera che sembra nata per immergersi in un immobilismo autoreferenziale si avvale di un dinamismo tutto suo: il racconto fluisce ininterrotto, un lungo monologo ipertrofico che colloca le pause al posto giusto: è ammirevole l'uso degli spazi bianchi abilmente cadenzati per variare un flusso narrativo spinto verso un esito imprecisato (la chiusura con il grottesco matrimonio è davvero una clausola incongrua). E in effetti è difficile dividere questo romanzo sui generis in capitoli o scene: l'unico nucleo concluso è la vicenda amorosa con Ruggero, cruda, amara, delicata e triste da ricondurre tuttavia all'universale costume di avvilimento e meschinità che tormentano l'onnipresente protagonista. La sensazione complessiva di questo 'récit' fatto di volgarità, dolore e recriminazioni, pervaso da fiotti sadomasochistici, non è, come si potrebbe pensare, una sorta di noia depressiva, frutto di una raggelante resa psichica. Per quanto atroci e vili siano le motivazioni psicologiche e imbarazzanti le situazioni, il narratore sorregge questa folle e sterminata autodenigrazione con un mai fiaccato vitalismo psichico-stilistico e ottiene di attrarre l'attenzione dei lettori tutta su di sé, come vuole la sua perversione infantile. Prevale, a lettura conclusa, un senso di recupero, una gioiosa autoesaltazione di chi ha vuotato il sacco e guarda retrospettivamente a quel flusso di miserie con una sensazione di malcelato godimento per tanta viscerale sincerità e cattiveria. Nell'eccezionale capacità di rendere stilisticamente vivo un vissuto dolente e mostruoso sta la cifra di un'opera letteraria non usuale nel mercato letterario dei nostri tempi.
Libri come questi, così poco consolanti e pacificati, possono fungere come antidoto nei confronti della cultura ufficiale dei nostri media, la cui 'vis dormitiva' non ammette che la cultura abbia una funzione autonoma, azzerandone di fatto ogni incidenza. Di fronte allo stupidario aziendalistico dell'etica governativa, scrivere e leggere, come momenti di concentrazione intellettuale, assumo i contorni di un'inammissibile ribellione alla passività indotta dai modelli imperanti. A chi scrive 'hic et nunc' spetta o di autonegarsi per rendere perfetta l'omologazione o di prender coscienza che l'arte dello scrivere ha per sua natura un implicito significato alternativo.
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