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Ogni giorno giornali e televisione ci propongono il problema dell’inquinamento, della corruzione dell’ambiente naturale, dell’estinzione possibile di qualche specie vivente, delle conseguenze catastrofiche per l’uomo di disboscamenti. Eppure per secoli l’uomo fece il proprio compito di popolare la terra e sottometterla a sè, gli uomini ritennero utile e necessario farsi largo nelle foreste, abbattere gli alberi, bonificare le paludi, cacciare gli animali, convertire i paesaggi umani in insediamenti umani. Quando avvenne quell’inversione dei modi di sentire, ovvero l’insinuarsi del dubbio che quella classificazione del mondo naturale potesse essere la sola, nè la più giusta? Ebbene questa rivoluzione che avrebbe investito tutto il mondo moderno e le società più evolute ebbe una gestazione lunga e radici lontane nel tempo. Si sviluppò tra il Cinque e l’Ottocento e la sua culla fu l’Inghilterra, forse non a caso la prima nazione industriale. Qui, mentre dilagavano le manifatture e le miniere di carbone abborivano uomini e cose, mentre le città si infittivano di una umanità operaia, le classi superiori che beneficiavano della ricchezza prodotta dalle attività industriali cominciavano a immaginarsi una nuova conciliazione con la natura. Le case di campagna, i parchi, i giardini, l’amore per gli animali da compagnia, il bird watching, fino all’autentica venerazione per cani e cavalli, sostanziarono il mito di una uova arcadia, divennero motivo letterario, si trasfigurarono in generi pittorici. Soltanto una mano raffinata e un’intelligenza consapevole della grandiosità del tema potevano cimentarsi con questa sterminata materia; le pagine di Keith Thomas ce ne restituiscono tutta la profondità e il fascino con rara, piacevole eleganza.
WORSTER, DONALD, Storia delle idee ecologiche
THOMAS, KEITH, L'uomo e la natura
recensione di Grande, C., L'Indice 1994, n.10
Ricchissimo di dati e di aneddoti, il libro di Keith Thomas, docente di storia moderna a Oxford, esamina in particolare l'atteggiamento verso la natura nei paesi anglosassoni, tra il Trecento e l'Ottocento. Anche sugli adoratori della 'country' (quanti cani, cavalli, falconi, nei dipinti dell'aristocrazia inglese), pesa molto il precetto della Genesi, che ordina agli uomini di popolare la terra e sottometterla a sé. L'antropocentrismo, avverte 'Thomas, non è prerogativa solo del cristianesimo: "maya, cinesi e i popoli del vicino Oriente sono riusciti a distruggere l'ambiente senza l'aiuto del cristianesimo". È un fatto, però, che "i romani abbiano sfruttato le risorse naturali del mondo precristiano con molta maggiore efficienza che non i loro successori cristiani nel medioevo".
Anche dopo il Rinascimento, le barriere tra uomo e natura cadono con molta fatica e solo parzialmente. Margaret Cavendish, duchessa di Newcastle e scrittrice eccentrica, nel Seicento rivendicava già la superiorità di alcune doti animali sull'uomo, ma anche le qualità dei vegetali. Le sue idee, che rispecchiavano l'influsso di Montaigne e dei libertini francesi sono molto simili ad alcune teorie attuali, eppure per quei tempi erano solo "stravaganti insulsaggini".
L'ammirazione per le sconcertanti imprese dell'istinto animale e per le qualità di alberi e fiori poteva giungere fino al ridicolo di un prelato che agli inizi del Settecento giurava di aver visto un gruppo di corvi piantare un boschetto di querce, per potervi fare il nido venticinque anni dopo. Ma mentre David Hume riconosce agli animali la facoltà del "ragionamento sperimentale" e detronizza l'uomo aggiungendo ironicamente che, se nelle loro azioni ordinarie le bestie non sono guidate dalla ragione, allora "non lo sono neppure i bambini: e neppure lo è la generalità degli uomini nelle sue azioni e conclusioni ordinarie", nelle campagne inglesi capitò ancora di assistere a grotteschi processi agli animali, o di vedere torturati e impiccati i cani sorpresi a cacciare il bestiame.
Anche la civiltà moderna, conclude Thomas, nella quale da un lato aumenta il benessere e dall'altro si sfrutta in modo spietato la natura, è prigioniera di una grande contraddizione: "I bambini di oggi, nutriti da una dieta carnea e protetti da una medicina i cui progressi dipendono dagli esperimenti sugli animali [difficilmente gli animalisti saranno d'accordo], si portano a letto i loro animaletti di pezza e prodigano il loro affetto ad agnelli e poney". Peccato che nelle conclusioni dopo aver criticato gli "ipersensibili" che non considerano l'ambiente al servizio dell'umanità, l'autore non faccia cenno allo sviluppo sostenibile, unica via praticabile fra il progresso a ogni costo e lo sfruttamento della natura.
AItrettanto ricca di informazioni e di grande interesse teorico è la "Storia delle idee ecologiche" di Donald Worster, docente di studi americani alla Brandeis University, che propone una via d'uscita ai paradossi contemporanei provocati dall'amore-odio per la natura. L'ecologia, spiega Worster, nasce nel Settecento, secolo in cui si cerca un metodo più completo per osservare la vita sulla terra e descrivere i rapporti tra gli essere viventi. Da tempo si è posta una domanda fondamentale: la natura è ordinata, ovvero ha un'organizzazione razionale ed efficiente, capace di darsi un costante equilibrio? Un dilemma (su cui si è divisa anche la comunità scientifica) che porta a due atteggiamenti opposti: chi è convinto, come gli ambientalisti, che esista un "ordine naturale'' ritiene che esso abbia anche un valore intrinseco, indipendente dall'uomo. Chi invece non crede nell'ordine naturale generalmente considera ambiente e risorse come un magazzino da sfruttare, da cui attingere a piacimento.
Ma se sir Isaac Newton era convinto che la natura ticchettasse con la precisione di un orologio, ogni giorno siamo sorpresi da decine di imprevisti. L'esempio classico, nel campo delle ricerche meteorologiche, è l'"effetto farfalla": una farfalla che oggi muove l'aria in un parco cinese, può trasformare il sistema dello stormo che il mese successivo volerà su una città dell'America settentrionale.
Insomma, la natura ha il volto buono di Gaia o quello cattivo di Caos? E la scienza deve avere un atteggiamento arcadico o imperialista? La contraddizione, dice Worster citando Horkheimer e Adorno, è nata nel Settecento: la Ragione si può consacrare alla libertà dello spirito, cercando l'ordine e lo scopo supremo dell'esistenza, oppure può essere usata per dominare la natura, dissacrando il mondo e riducendo tutto in termini quantitativi e meccanicistici. Ma è l'atteggiamento, avverte l'autore, che porta "all'alienazione spirituale degli uomini dalla natura e da lì alla mercificazione e industrializzazione del mondo".
Una conclusione "razionale", comunque, la maggior parte degli studiosi l'ha raggiunta: concentrarsi sulla salvaguardia della natura. Marx ed Engels, spiega Worster, "credevano che per liberare le persone dai pregiudizi del passato fosse necessario minare i concetti tradizionali del tempo e dell'ordine; perciò essi non si preoccupavano di preservare i sentimenti antichi per la natura n‚ della tutela dell'ambiente". Ma oggi sappiamo che "il capitalismo globale continuerà a promuovere la crescita incontrollata dell'economia e della popolazione, ad alimentare le aspirazioni nascenti dei poveri senza soddisfarle appieno". La soluzione non è congelare la natura e chiuderla in un museo, ma salvare la biodiversità, la varietà dei mutamenti, stabilendo quali siano accettabili e quali minaccino la nostra esistenza.
Le comunità durature, conclude Worster, sono quelle che non sognano di vivere libere dalla natura, ma che si impongono regole e limiti, senza lasciare che siano gli individui a decidere come comportarsi. La sfida è capire che "il ritmo furioso delle innovazioni computerizzate può essere giusto per una comunità affaristica e competitiva, ma non è adatto o sempre compatibile con l'evoluzione di una foresta di sequoie". Le nuove generazioni riusciranno ad apprezzare la differenza fra Disneyland e il parco di Yellowstone, tra un villaggio alpino e una megalopoli di 30 milioni di abitanti.
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