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Strade blu. Un viaggio dentro l'America - William Least Heat Moon - copertina
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Strade blu. Un viaggio dentro l'America - William Least Heat Moon - copertina

Dettagli

1988
31 dicembre 1989
509 p.
9788806114077

Valutazioni e recensioni

4,5/5
Recensioni: 5/5
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Adriano
Recensioni: 4/5

Molto bello. A tratti mi è parso noioso, ma comunque è una narrazione dinamica. Stupende le digressioni storiche sui posti attraversati, indimenticabili i personaggi: il migliore? Sicuramente il predicatore autostoppista!!!

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Massimo
Recensioni: 5/5

un libro semplicemente stupendo che si legge tutto d'un fiato per poi tornare a rileggerlo con più calma per approfondire i punti che più hanno colpito. Bellissimi i personaggi intervistati, le meditazioni dello scrittore, i riferimenti al poeta Whitman, ad Alce Nero. Stupende le descrizioni dei paesaggi e dei luoghi visitati, il tutto miscelato in un'ironia a volte aspra e a volte veramente trascinante.

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Recensioni

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Voce della critica


recensione di Carboni, G., L'Indice 1989, n. 3

La situazione di partenza di "Strade Blu" è forse la più canonica tra quelle presentate dalla letteratura americana. Come Ismaele, l'indimenticabile narratore di "Moby Dick", che prende il mare quando il suo spirito è tanto turbato da fargli pensare al suicidio, William Least Heat Moon inizia il suo viaggio attraverso l'America quando il gelo dell'inverno, e quello dell'anima, sono tanto profondi che "se non smetteva presto gli alberi sarebbero gelati fino al midollo e sarebbero esplosi"; ma in un certo senso la somiglianza finisce qui.
William, di sangue misto, mezzo Sioux e mezzo bianco, giovane insegnante di inglese in una piccola università, dopo aver scoperto che il suo matrimonio è definitivamente fallito, e che è stato licenziato, si mette in viaggio su un furgone attrezzato a camper con mezzi di fortuna, e ribattezzato "Ghost Dancing" (danza degli spiriti, autoironica memoria delle cerimonie indiane). A bordo, come guida ed ispirazione, prende il libro di Neihadart "Alce Nero parla" (ovvero la saggezza del suo popolo d'origine) e "Foglie d'erba" di Walt Whitman (ovvero il grande canto della molteplicità dell'esperienza americana e della santità di ogni sua più piccola manifestazione).
Potrebbe essere un nuovo "Sulla strada" ma non è così. A differenza del giovane Kerouac, Least Heat Moon sceglie le strade secondarie, la piccola velocità, lo sforzo di resistere alla "tentazione dell'autostrada americana", che è poi quello a cui cede sempre Kerouac. "Trasformare il parabrezza in uno schermo cinematografico in cui chi guarda si muove, mentre il mondo osservato sta fermo", annullare la diversità del paesaggio nella monotonia sempre uguale dello scorrere del nastro d'asfalto, ridurre la concretezza degli spazi al vuoto di uno spazio sempre uguale a se stesso. La circolarità di questo viaggio, con il suo ritorno al punto di partenza, è esibita, non nascosta nell'eccitazione del movimento come accade nel romanzo di Kerouac, che finisce sempre per ritornare tra le braccia della madre (o di un suo simbolico sostituto) senza che nessuna delle conclamate esperienze e mistiche illuminazioni abbiano mai prodotto maturità. (Così come siamo lontani da un altro, recente classico del viaggio americano: "Zen o l'arte della manutenzione della motocicletta", in cui il percorso sulle strade corrisponde ad un percorso a ritroso nella propria identità (cancellata dall'elettroshock) e insieme alle origini della cultura occidentale, fino alla riscoperta della fonte della propria pazzia individuale e di alcune contraddizioni fondanti della nostra cultura, e fino alla loro "illuminata" accettazione.
La sfida che questo libro dai toni tranquilli accetta è come costruire una narrativa di viaggio 'pura', come narrare di un viaggio intrapreso con la necessità morale di ricominciare a vivere senza accedere ad una chiusura mitica e simbolica, senza nessuna apparente rivelazione ed illuminazione; come si possa scrivere in prima persona di un viaggio senza esserne, in senso profondo, il protagonista. Forse una simile operazione narrativa è possibile grazie ad una rilettura dell'archetipo del viaggio che ci è familiare fatta alla luce della cultura Hopi, il cui labirinto - incarnazione mitica dell'umana l'esperienza - è assunto ad emblema del libro e corrisponde vagamente al tracciato della strada percorsa. Una rilettura che fa cadere ogni pretesa di vero ritorno alla casa del padre o di rivelazione finale, anche quella dell'incontro cruciale nell'oltretomba in cui ogni grande mitico viaggio sembra culminare, perché un "vero" viaggio, quello di Ulisse, quello di Ismaele o perfino quello della piccola Dorothy del "Mago di Oz", "per quanto tempo richieda non finisce mai".
Però fa forza del libro non emerge da questo frammento di discutibile saggezza. Potremmo dire che emerge invece dal terzo, indispensabile volume che Least Heat Moon porta con sé, l'atlante delle strade d'America. In realtà quello che ci viene raccontato è lo spazio che si dispiega tra i "nomi" e le caratteristiche geologiche, morfologiche ideologiche e della vegetazione del paesaggio.
Se l'impulso a viaggiare è la disperazione, quello che sostiene il viaggio nella sua fatica è la curiosità che i nomi sulla carta geografica suscitano. Cosa potrà esserci in luoghi che si chiamano Remote (isolato), Simplicity (semplicità), New Hope (nuova speranza), Why (perché), Whynot (perché no)? Tra questi nomi e il paesaggio, sempre osservato con lucida attenzione e senza sentimentalismi, si dispiega la storia, o meglio le storie. I luoghi che Last Heat Moon visita sono molto spesso luoghi a cui la storia nel suo scorrere ha voltato le spalle, luoghi in cui sembra essere rimasta solo perdita, lutto, spesso le cicatrici di uno sviluppo economico perduto o di modi di concepire la vita obsoleti, ma che rimangono vivi nelle storie, nei racconti nella meravigliosa concretezza delle voci di chi ancora vive, abita, se ne nutre. Come la famiglia Watts, con il suo negozio di generi vari a Nameless (senza nome) nel Tennessee, che sebbene debba chiudere perché non c'è più popolazione da servire, spera ancora di vendere il negozio, il terzo che ha costruito con le sue mani sullo stesso posto, a della "brava gente che ci cavi da vivere". Come William stesso, che attraversando la terra degli Hopi circondata dalla riserva dei più numerosi e più ricchi Navajo, contempla lo strano caso della causa in corso per le terre tra le due tribù: un litigio in cui "i primi ad occupare quelle terre (gli Hopi) devono cercare giustizia nei confronti di quelli che sono venuti dopo (i Navajo) secondo la legge di quelli che sono arrivati per ultimi (i bianchi)".
E come il narratore non trova una chiave che dia un senso all'esperienza della propria vita e al viaggio - una chiave che non sia quella tautologica del vivere e del viaggiare - così le tante storie non trovano mai l'organizzazione di un grande disegno della storia, per quanto Least Heat Moon sia assai abile nel raccogliere e fornire le informazioni necessarie a definire il contesto, perfino trovando piccoli frammenti di morale nella propria voce di insegnante che gioca con l'etimologia come strumento di persuasione: "vacanze americane dal latino vacare, essere vuoti". Le voci, le storie, gli incontri rimangono sovrani nel loro valore di unicità con la "latenza delle esperienze non viste" di cui parla un citato verso di Whitman sui sentieri che corrono lungo le strade maestre.
In queste "blue highways" regna una irriducibile pluralità di ordini coesistenti senza contraddizione, forse perché la storia sembra aver voltato loro le spalle, forse perché ciascun ordine è vissuto con pienezza di individuazione, come fatto personale. Tutto è investito di irriducibile pluralità, a partire dal blu che colora queste strade. Forse sarebbe stato necessario tradurre il titolo con "provinciali", ma allora si sarebbe persa la tensione tra un dato di realtà (la convenzione tipografica per cui è blu il colore delle strade provinciali nelle vecchie carte), le connotazioni di malinconia (come nei 'blues', per esempio) e il valore evocativo di 'highway'.
Al di là di questo, per cancellare qualsiasi illusione che la tesi del libro sia che un ritorno alla cultura tradizionale degli indiani possa fornire la risposta al disagio della civiltà contemporanea e alla confusione individuale, Least Heat Moon ci offre una ulteriore contraddizione: per gli Hopi il blu di un certo tipo di grano è il segno certo, dovunque cresca, che quella è la loro terra, la loro sacra terra, ma per gli Oglala Sioux la strada blu è quella di chi è "distratto, dominato dai sensi, che vive per sé stesso piuttosto che per il proprio popolo". William Last Heat Moon è per metà Sioux, e se è dominato dai sensi bisogna essere grati della loro vivezza, della finezza del suo orecchio, dell'acutezza del suo sguardo. "Strade blu" non è forse un capolavoro come vorrebbe Robert Penn Warren, un grande poeta e critico americano, ma è un buon libro, un libro che merita di essere letto e gustato a piccoli sorsi. e che forse contribuirà a ridurre, almeno un poco, la moda del viaggio in America, due settimane tutto compreso, per rivedere dal vivo quello che abbiamo già visto in TV.

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