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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2010
Anno edizione: 2008
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La prima parte ha una forza devastante. L'autore individua come cause dell'attuale crisi da una parte la globalizzazione, entrata in Europa troppo velocemente e senza che essa stessa ponesse dei mezzi che frenassero la concorrenza sleale dei Paesi emergenti, Cina in primis, dall'altra le banche, con la loro tendenza a sbarazzarsi del rischio distribuendolo a soggetti terzi e con la creazione di una quantità di complessi strumenti finanziari come hedge funds, derivati e così via. Nella seconda parte perde un po' la sua forza iniziale, è più macchinoso, comincia a moralizzare, si concentra sulla crisi dei valori e sulla debolezza politica europea, proponendo poi alla fine una serie di misure atte a difendere il nostro mercato dall'attacco commerciale proveniente da zone extra UE e a ridarci un'identità politica europea. Lo consiglio a tutti.
banale e prolisso libro infarcito di demagogia. Pessimo, confusionario come il suo autore. Volete leggere saggi illuminanti sull'economia attuale? leggete qualcosa di Stiglitz!
E' sorprendente come certa politica, incapace di indicare una qualche linea di sviluppo per il Paese, riesca sempre a trovare un capro espiatorio per disorientare gli elettori. Un'accozzaglia di demagogia, un libro subdolo e populista. L'autore ha la straordinaria capacità di dare sempre la colpa di problemi italiani a "qualcun altro". Provate a leggere "la crisi" di Alesina e Giavazzi. Io tra le righe la considero una risposta alle idee del ministro.
Recensioni
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Tra i diversi esponenti delle classi dirigenti italiane, forse solo Giulio Tremonti sa sottolineare con la dovuta enfasi la crisi del processo di globalizzazione e la gravità dei suoi possibili esiti: ed è questo a conferire forza al suo ultimo lavoro. La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla, (Mondadori, Milano, 2008) infatti, entra in sintonia col sentire comune proprio perché nomina, e quindi a modo suo esorcizza, anche la paura, mentre la sinistra sembra troppo spesso eludere le inquietudini invece di affrontarle. Certo, la formula dell'esorcismo di Tremonti è classicamente populista, ma almeno è qualcosa; mentre, per dirla con lo stesso autore, "sul mercatismo, la parte maggiore della sinistra la parte governista tace e dunque acconsente". Quando, aggiungiamo, non insiste con lo zelo del neofita nel liberismo tecnocratico che ha contribuito all'esito del 14 aprile. Il libro di Tremonti si presenta a prima vista come un rifacimento del precedente Rischi fatali. Ma alle considerazioni spesso "tecniche" di quel lavoro si aggiunge qui un pathos che, tra denunce del mercatismo e del consumismo, riabilitazione della politica contro l'economia, affermazione dei valori che quella politica dovrebbero sorreggere, costruisce efficacemente il vero contenuto politico del testo, mostrando quanto la destra di governo sia capace di fiutare l'aria che tira. La formula è populista, si diceva: e robustamente tale. Anzi, è un vero e proprio manifesto per una risposta di destra a quella crisi la cui entità sembra del tutto sfuggire a Veltroni. Come in ogni populismo che si rispetti, il "male" viene dall'esterno: non dalle dinamiche endogene di un capitale che ha frantumato il lavoro, ma da una affrettata mondializzazione del mercato, e soprattutto, dalla concorrenza cinese. E, come in ogni populismo, ci sono parole dure contro una parte del capitale, ossia contro le "megabanche" la cui irresponsabilità ha generato l'attuale crisi finanziaria; mentre non si spende nemmeno una parola sull'irresponsabilità di tutte le grandi imprese (anche di quelle "non speculative") che ormai, come ha dimostrato Guido Rossi, si fanno beffe anche formalmente dei loro stessi azionisti. E non può mancare il richiamo al demos, non già come soggetto dinamico di conflitto e di diritti, ma come "una visione strutturata e stabilizzata della società", come comunità fondata sull'appartenenza territoriale e sulla sicurezza che questa conferisce. Infine, la politica che dovrebbe contrapporsi allo strapotere dell'economia (in realtà a quello delle banche e di parte della finanza, lasciando libere le altre imprese) deve essere un vero potere, non troppo limitato dagli scrupoli del costituzionalismo, fondato su valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo (il puntiglioso elenco è dell'autore), capace di dare all'Europa un vero ruolo mondiale (icastiche ed efficaci le pagine dedicate all' "indecisionismo" comunitario) e di farla divenire davvero una fortezza contro merci e genti straniere. Un' Europa che rivendichi le proprie radici cristiano-giudaiche contro quegli "altri" che possiamo accettare solo se diventano immediatamente "come noi", se "rinunciano alla loro identità": giacché è solo opponendosi agli "altri" che la comunità si costituisce. Come si vede, il nostro non si è affatto convertito all'"altermondialismo". Come si vede (quando sapremo capirlo fino in fondo?) esiste anche una critica di destra alla globalizzazione: può funzionare e può occupare una parte rilevante del "nostro" spazio. Sono tesi alle quali molto si può controbattere sul piano argomentativo: ad esempio la contraddizione fra la critica al consumismo e la coalizione con il consumismo in persona. Una contraddizione che fa stridere i valori spesso raccogliticci evocati da Tremonti con il banale libertinaggio ostentato da un'intera classe dirigente; doppie e triple morali che insegnano che ai valori più severamente proclamati possono corrispondere i comportamenti più carnevaleschi: vera fonte (altro che "relativismo del '68", ovviamente aborrito in queste pagine) del nichilismo del nostro cattolicissimo paese. Qui però non serve polemizzare, ma capire. Capire la debolezza e la forza del discorso di Tremonti. La debolezza (oltre che nel riferimento protezionista a frazioni spesso arretrate del capitalismo nostrano) sta nel fatto che un progetto che vuole regole nel mercato mondiale, ma deregolamentazione per le imprese europee, che vede la società come un'insieme di "imprese che domandano decisioni e bisognosi che domandano assistenza", che affida questa caritatevole assistenza praticamente al solo volontariato, può incontrare serie difficoltà egemoniche. Al che si aggiunge una palese contraddizione tra l'esaltazione dei territori e l'odio contro la "democrazia del '68", la democrazia dal basso, permanente, quella "dei sindacati universali e dei comitati territoriali": contraddizione che ci indica in un diverso rapporto coi territori e coi loro interni conflitti una via per insidiare, e proprio dall'interno, lo strapotere leghista-tremontiano. Ma non minori, anzi, sono le ragioni della forza. Prima di tutto il discorso comunitarista si basa, come ben sappiamo, su corpose realtà territoriali. E quel discorso può contare, per diffondersi ulteriormente, su un set di strumenti che va dalle televisioni, al partito-azienda, al più tradizionale partito di massa (la Lega), mentre la sinistra non può contare sulle prime e sul secondo, ed oscilla tra parodie del terzo ed incerte sperimentazioni di qualcos'altro. Inoltre la retorica populista è capace di trasformare tutte le smentite in ulteriori conferme della propria "verità": dato che il male viene dall'esterno, ogni aggravamento della situazione può al nemico esterno essere continuamente riaddebitato, assolvendo da ogni colpa gli avversari di casa propria. Infine, la paura. Risorsa quasi inesauribile di consenso. I nuovi "democratici" si dividono tra chi la cavalca e chi la ignora. La sinistra ahimè extraparlamentare, ha finora cercato di "ridurla", dimostrando ragionevolmente che l' "altro" non è una minaccia. Si tratta forse, almeno e solo in questo, di imparare da Tremonti: alla paura va dato un nome, ricostruendo, se non l'immagine di un nemico, quanto meno quella di un avversario. E si dovrà quindi riproporre con efficacia la lotta di classe (il segnale dato dagli operai del Nord è stato limpido, al riguardo), ma anche (visto che le identità politiche relativamente stabili non si costruiscono solo o soprattutto in relazione alla posizione lavorativa) una lotta dei territori contro il capitalismo selvaggio, interno o esterno che sia. Territori che, nel conflitto, possono costruire quella comunità fondata sulla libera associazione e sulla partecipazione democratica che Tremonti tanto disprezza perché vi vede, e a ragione, la più pericolosa insidia all'egemonia (localizzata e per questo fortissima) della destra. Un'ultima questione. La politica che Tremonti propone di sovraordinare all'economia non ci piace. È soprattutto forza, è decisionismo programmaticamente contrario alla democrazia di base. Propone un interventismo economico europeo i cui unici contenuti certi sono i dazi e le sanzioni contro il "nemico esterno" dagli occhi a mandorla. Parla di limiti severi all'immigrazione e di completa libertà per le imprese. Ipotizza un asse privilegiato Europa-USA e lavora per un conflitto tra blocchi dal quale anche un uomo come Henry Kissinger ha recentemente messo in guardia ( "Tre rivoluzioni, un nuovo ordine", La Stampa, 14.4.08). Non ci piace, ma è una politica, è la presa d'atto che la crisi incombente non si fronteggia con la retorica mercatista nella quale la sinistra liberista insiste e contro la quale la sinistra antiliberista non sembra avere ricette, anche perché troppo ha scordato della sua propensione all'intervento nelle strutture di produzione e distribuzione. Se vogliamo risalire dal baratro del 14 aprile, cominciamo col non lasciare all'avversario la critica efficace del mercatismo selvaggio, che noi abbiamo inaugurato molto prima, e molto meglio. Paolo Ferrero
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