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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2016
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Racconti vari dell'autore sui "suoi" ragazzi e sulla sua vita. L'intento è lodevole ma a me non è piaciuto molto poiché ci sono troppe storie. Comunque è un libro degno di nota. Può far riflettere sull'emarginazione, sugli immigrati, sull'aiuto nei confronti di chi è bisognoso, orfani o no, ecc. senza alcun tono paternalistico o pietistico. La prima edizione (questa) riporta in copertina la dicitura "romanzo" ma è un evidente errore; infatti nella successiva edizione la medesima copertina non ha più tale indicazione.. Io non lo sapevo e per me è stata una gran fregatura, mi pare assurdo un errore del genere..è un insieme di vicende reali che del romanzo non hanno proprio nulla..
Sinceramente questo libro di Eraldo Affinati, propostomi a scuola non mi è piaciuto molto.Mi è risultato di difficile comprensione in alcuni passaggi e lungo in altri.Il libro inoltre è colmo di metafore che rendono la lettura abbastanza noiosa, eccezion fatta per alcune di esse veramente originali.Ho trovato interessante la descrizione di alcuni luoghi ed elementi di vita quotidiana in Marocco.Mi sono piaciute anche alcune storie di ragazzi ma sono troppe, tanto che si confondono nella lettura.
Un capolavoro, non ho altro da aggiungere!
Recensioni
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"In classe abbiamo una bella carta geografica. Molti miei alunni, slavi, arabi, africani e asiatici, possono considerarsi esperti viaggiatori. Hanno mangiato la polvere dei deserti, il catrame delle autostrade. Conoscono la vernice scrostata delle sbarre doganali, i sonni persi con la testa appoggiata al finestrino dell'autobus, i documenti stropicciati fra le mani. (
) E io compio davvero insieme a loro, senza pagare il biglietto, il giro del mondo in aula". Così Eraldo Affinati concludeva l'introduzione al suo Compagni segreti (Fandango, 2006). In quello sguardo posato su un'aula scolastica molto particolare, c'era la prefigurazione della materia di cui è composto questo ennesimo capitolo di una considerevole carriera letteraria fra saggismo e narrativa. Se si osserva a ritroso la produzione di Affinati, essa sembra mossa soprattutto da una ricerca etica, prima ancora che artistica; c'è una convinzione, pregiudiziale e assoluta, che Affinati sempre ha voluto trasmetterci, sia che si occupi di Tolstoj o di Bonhoeffer o della storia di sua madre scampata alla Shoah: la potenza della letteratura, la sua capacità di assumere, come qualsiasi altro gesto umano, una rilevanza e significanza universale, stigmatizzando così il comportamento di chi "vuol procedere pensando solo a se stesso".
Ecco dove affondano le radici della sua scrittura e dove risale la genesi anche di questo suo intenso e commovente La città dei ragazzi, opera fra le più riuscite dell'autore romano. Poiché l'essenziale è sempre sotto gli occhi, questa volta i suoi "compagni segreti" Affinati non ha bisogno di scovarli nelle pagine di capolavori o nelle strade del mondo: ce li ha proprio lì, tra i banchi di scuola della Città dei ragazzi, una specie di comunità-utopia-falansterio fondata a Roma nel secondo dopoguerra dal sacerdote irlandese John Patrick Carroll-Abbing, un luogo "dove il fanciullo amareggiato avrebbe trovato la dedizione degli adulti", secondo le parole del monsignore. Qui, per scelta, è approdata la carriera di insegnante di Affinati: e qui sono approdati, in seguito a circostanza assai più dolorose e traumatiche delle sue, i suoi alunni.
Si chiamano Nabi, Faris, Francisco, Ivan, Mihai, Angus, Adulali ecc., sono giunti in Italia nei modi più imprevedibili e tortuosi, scaraventati da tutte le parti del mondo, hanno quattordici, quindici anni e alle spalle un carico di esperienze talmente sconvolgenti che ci si stupisce a pensare che riescano ancora a parlare, a sorridere, a vivere. Sono i paria della globalizzazione e del fanatismo ultraliberistico, i lazzarilli e gli sciuscià del nuovo millennio, gli Oliver Twist dei giorni nostri. Alla fine dell'apprendistato scolastico narrato in questo volume, sapremo che uno sarà scaricatore di bagagli in un albergo a Termini, un altro venditore di frutta sulla Portuense, un altro ancora commesso in un negozio di fotocopie sull'Anagnina e così via. Aver avuto il privilegio di essere stato loro insegnante significa non solo "compiere un'opera umana", come dice l'epigrafe in apertura di libro di Teilhard de Chardin, ma anche offrirsi indifesi a una sequela di squassanti emozioni, vere e proprie fitte del cuore: significa arrendersi alla "tenerezza che sentivo invadermi quando spiegavo il Risorgimento agli slavi e il groppo che mi attanagliava la gola nel momento in cui elencavo i gradi di parentela italiana agli afgani".
In tempi assai grami per l'istituzione scolastica, Affinati riconsegna all'esperienza dell'insegnamento quel ruolo che le spetta di diritto: "Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell'insegnamento". È questo che spinge l'insegnante-scrittore a ricopiare, con la stessa paziente acribia con la quale un severo copista trascriverebbe preziosi codici manoscritti, le lettere che questi ragazzi gli inviano. Tutte iniziano con una struggente e bellissima storpiatura "caro raldo". Tutte sono ovviamente piene di sgrammaticature, di svarioni ortografici, di punteggiatura sconnessa, ma rivelano una straordinaria, incontenibile urgenza comunicativa che pochi altri testi hanno. In quelle righe sbilenche c'è un sapore inconfondibile: quello della vita vissuta che chiede ascolto e comprensione. Affinati reagisce alla sfida che proviene da queste vite di scarto: vuole scoprire l'enigma delle radici, vuole sapere come e perché essi sono giunti lì. Si ingegna a proseguire lungo quel tracciato che aveva già sperimentato nelle altre sue opere, restituendo alla letteratura la sua ineludibile responsabilità morale e sociale: studiare i fatti, decifrare le incurie, scoprire le distrazioni, accertare le responsabilità.
In questo libro, come in una pellicola del duo Iñárritu-Arriaga, tre vicende si mescolano e si annodando in una catena di rimandi e riflessi continui: la cronaca delle giornate presso questa nuova scuola di Barbiana che è la Città dei ragazzi, la narrazione di un viaggio in Marocco, ospite desiderato e curioso di due studenti, Omar e Faris, la ricostruzione, sul filo labile della memoria, della storia del padre dell'autore. Anche lui è stato un orfano e uno sciuscià, a suo modo, nell'Italia del secondo dopoguerra, anche lui un ex cucciolo smarrito alle prese con la schiacciante brutalità delle cose. Quel padre tanto poco conosciuto in vita, tanto enigmatico e sfuggente, la cui personalità Affinati ricostruisce per tagli ed ellissi, viene recuperato proprio attraverso quei "minori non accompagnati, quei figli senza padri". È come se il contatto con quel mix di determinatezza e fragilità che è la loro adolescenza gli consentisse di compiere il più nobile e antico gesto del mondo, quello di Enea che carica sulle proprie spalle il padre Anchise. Senza di loro, l'avrebbe perso per sempre. Linnio Accorroni
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