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Anno edizione: 2007
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Fui interessato moltissimo a leggere questo libro, poichè riguardava un problema che a me personalmente interessa dato che sono di classe 86. Tuttavia il libro l' ho trovato un' occasione mancata e soprattutto non ha centrato nel pieno il problema. In Italia i giovani non stano male perchè sono stati concessi privilegi ai genitori o perchè sono bamboccioni, o almeno non è questa la prima causa. Il vero problema è che in Italia non c' è proprio opportunità per un giovane. I salari sono bassi, il lavoro vero è quasi inesistente, l' istruzione fa schifo, ci stiamo mangiando settori economici importanti come il manufatturiero e l' agricoltura, un tempo fonti di lavoro, campiamo coi contratti a progetto e altro.Questo è il rpoblema non le pensioni ai nostri genitori, dato che il 60% delle pensioni erogate dall' INPS sono inferiori ai 700 euro, nè che ci sono troppi dipendenti statali dato che Francia, Germania e Gan Bretagna ne hanno di più.
“Contro i giovani” è una sorta di compendio rispetto a “Meritocrazia” di R.Abravanel e “Il fattore D” di M.Ferrera, entrambi di pubblicazione successiva e da me letti: rappresenta forse una sorgente autorevole e competente dalla quale è possibile sia stato preso spunto per sviluppare più dettagliatamente alcune tematiche specifiche messe già in luce da Prof.Boeri e Prof.Galasso. Mi sono piaciuti lo stile e la sintesi con cui hanno trattato argomenti inerenti al welfare state in Italia, in particolare: una politica sociale rivolta finora prevalentemente verso le generazioni più avanti con gli anni a discapito di quelle più giovani; il peculiare familismo italiano, parallelo al consociativismo, entrambi effetti di tutta una serie di concause, tra le quali la sterilizzazione del senso civico; la mancanza di proficue interazioni generazionali; l’arida realtà delle rendite di posizione; e altri ancora, ai quali non hanno mancato di proporre bozze di soluzione (Boeri tra l’altro è coordinatore del sito lavoce, vedetta da cui viene monitorata con competenza la politica economica). Ritengo degno di citazione anche l’ultimo capitolo, dove non vengono risparmiate fondate critiche alla conduzione dell’amministrazione della Cosa Pubblica in Italia, sulla base anche di quello che è riportato nelle pagine precedenti, da parte di una classe politica sempre più orientata a mantenimento e consolidamento del potere acquisito. Giudizio personale: adatto a chi è propenso a rischiare nei limiti del lecito, superando tutte le remore a lasciare ormeggi sicuri ma spesso inerti, a riformare liturgie sviluppate all’epoca industriale incongruenti nell’attualità, a recuperare il senso civico sublimando familismo e corporativismo a favore di una società aperta e mobile; rivolto ai quarantenni come me, che stanno attraversando gli anni che dovrebbero essere i più fertili, e a tutte le giovani e i giovani che hanno di fronte un futuro per lo studio, per il lavoro e per formare una famiglia.
Premetto che del libro ho letto solo alcune parti, ma trovo l'impostazione assolutamente fuorviante. Si parte da un problema reale, quello della miseria economica e sociale della generazione giovane contemporanea, per attribuirlo in un certo senso a presunti privilegi di una generazione anziana conservatrice e gelosa. Il solito trito e ritrio argomento che mira a contrapporre le generazioni come se il vero problema fosse quella di un sperequata distribuzione di risorse tra giovani e vecchi. Nulla di più errato. Il problema è il capitalismo e in particolare il neo-capitalismo basato sul perseguimento ossessivo dell'abbassamento dei costi del lavoro, tramite l'aumento della precarietà e dei contratti atipici a bassa aliquota contributiva. Il problema è la mancanza di una politica industriale forte, di un intervento pubblico mirato a sostegno delle imprese nazionali. Il problema è il predominio della speculazione finanziaria sull'economia produttiva. Le pensioni dei nostri padri impariamo a difenderle, perché la loro forza contrattuale va di pari passo con quella di noi giovani lavoratori e non è affatto contrastante.
Recensioni
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Nella vita economica, i rapporti tra le generazioni sono scanditi dalla crescita: quando la demografia e l'economia si espandono, le nuove generazioni sono più numerose delle precedenti, hanno maggiori opportunità e si collocano su un gradino più alto nella scala dei redditi. È l'essenza dello sviluppo: i figli stanno almeno un po' meglio dei genitori, i quali, a loro volta, stanno meglio dei nonni.
Nel nostro paese, da un paio di decenni, il normale avvicendamento delle generazioni appare stravolto. L'invecchiamento sta mutando radicalmente i rapporti demografici. A metà degli anni novanta, il numero degli anziani (sessantacinque e più anni) superava di circa il 15 per cento quello degli adolescenti (fino a 15 anni); nel 2006 il rapporto era di poco meno di tre a due. L'aspettativa di vita alle età anziane è salita di oltre due anni soltanto nell'ultimo decennio, e continua a crescere, con una dinamica sostenuta e non facilmente prevedibile, anche perché influenzata dalle innovazioni in campo medico. Si è fortemente ridotto il tasso di fecondità, per il quale l'Italia si colloca agli ultimi posti nella graduatoria europea e internazionale. Cambia radicalmente anche la tipologia delle famiglie, metà delle quali è oggi costituita da famiglie "nucleari", con uno o al massimo due componenti.
Agli "stravolgimenti" demografici ha fatto da contrappunto il rallentamento strutturale della crescita della produttività, in particolare nell'ultimo decennio. È venuto dal governatore della Banca d'Italia (Mario Draghi, Consumo e crescita in Italia, lezione tenuta alla 48a Riunione scientifica annuale della Società italiana degli economisti, Torino, 26 ottobre 2007) il più autorevole "grido d'allarme" sulla stagnazione, tutta italiana, dei redditi da lavoro e sul peggioramento delle condizioni di partenza e, più in generale, di vita delle nuove generazioni. I salari d'ingresso sono diminuiti: diplomati e laureati entrano oggi più tardi nel mercato del lavoro, e con una retribuzione più bassa di quella di coloro che entravano nei primi anni novanta, all'incirca uguale a quella degli ingressi nei primi anni ottanta. Quel che è peggio, a salari d'ingresso più bassi non fa riscontro una più sostenuta dinamica successiva; al contrario, precarietà e stagnazione sembrano caratterizzare un lungo segmento della vita lavorativa, e non soltanto la parte iniziale. La riduzione del reddito da lavoro assume così, almeno in parte, carattere duraturo, con riflessi negativi sulle prospettive delle famiglie: mentre il reddito diminuisce, il grado complessivo di incertezza dei giovani aumenta, le loro possibilità di costruire piani di vita credibili si riducono fortemente, e con esse il loro desiderio formare essi stessi una famiglia, di avere a loro volta dei figli.
L'incertezza e la percezione di regresso nelle condizioni di vita si estendono al periodo di pensionamento: i giovani hanno scarsa fiducia nella possibilità di poter disporre, quando saranno anziani, di una pensione adeguata, non soltanto perché le riforme previdenziali degli ultimi quindici anni (necessarie per sanare gli squilibri finanziari generati dall'eccesso di generosità adottato nei confronti delle generazioni precedenti) hanno reso più severe le formule pensionistiche che a loro si applicheranno, ma anche perché sanno che senza una carriera lavorativa continua e ben retribuita sarà molto difficile farsi una buona pensione, anche sommando il pilastro privato a quello pubblico.
L'assenza di crescita favorisce uno strano connubio, anch'esso tutto italiano, tra egoismi pubblici e solidarietà familiari e private. Anzitutto, poiché gli elettori anziani sono molti e gli elettori giovani sono pochi, la politica ha spesso assecondato, per mero calcolo elettorale, l'egoismo degli anziani. Dando prova di scarsa saggezza e lungimiranza, essa non ha agito a tutela delle generazioni giovani e non ancora nate, che non votano; invece di difenderle, non ha esitato a caricarle di oneri impropri. Un debito pubblico esorbitante (inclusa la componente pensionistica) e un sistema di welfare basato su un malinteso senso di solidarietà e su un eccesso di garantismo nei confronti delle coorti viventi hanno costituito gli aspetti più eclatanti di questa "rottura" del patto tra le generazioni (di cui il sindacato, peraltro, è stato corresponsabile). Ciò ha generato, nel privato, un riflusso solidaristico a corto raggio, con trasferimenti dai nonni (detentori di qualche risparmio e percettori di una magari modesta pensione) ai giovani, precari e poco pagati.
Anche se le complessità e le incertezze del mondo attuale impongono una maggiore responsabilizzazione dei singoli e un più rilevante ruolo del mercato, la società non può fare a meno di un patto tra le generazioni. La suddivisione del rischio tra di esse deve essere la continuazione, in forma collettiva e più sofisticata, della tradizionale divisione del rischio all'interno della famiglia. E proprio dalle limitate capacità degli individui di gestire i loro rischi, dalle "imperfezioni" dei mercati e dall'indebolimento delle "obbligazioni" familiari scaturisce un ruolo fondamentale per un intervento pubblico di promozione del benessere collettivo.
Per realizzarlo, è necessario riscrivere il patto. La chiave principale di questa riscrittura è la crescita della produttività. La politica può aiutare a ritrovare questa chiave promuovendo quelle riforme strutturali (dal sistema di istruzione al funzionamento della macchina burocratica, dalle infrastrutture alla promozione di una cultura del merito, della competenza e della valutazione, dall'abolizione delle diffuse rendite di posizione che frenano l'efficienza del sistema produttivo alla salvaguardia del risparmio) troppe volte promesse e mai realizzate.
Una seconda chiave per riscrivere il patto tra le generazioni è la formulazione di un sistema di welfare che metta al centro non già una mera redistribuzione di risorse entro e tra le generazioni, ma uno schema trasparente, efficiente (senza sprechi) ed equo di suddivisione del rischio tra le generazioni (ossia della necessità di premunirsi per fronteggiare perdita di reddito, invecchiamento e malattie). Uno schema che, anziché affidarsi alle scelte discrezionali dei partiti di volta in volta al governo, sia invece fondato su una funzione di benessere sociale che assegni un peso ai rischi non soltanto delle persone viventi in un dato momento, ma anche delle generazioni giovani e future. Nella definizione di regole che proprio dai limiti dei singoli e del mercato consentano di promuovere il benessere collettivo sta una delle più importanti sfide di una società moderna.
È questa, in sintesi, la visione preoccupata, ma non senza speranza, che emerge dal libro di Tito Boeri e Vincenzo Galasso (due tra i più brillanti economisti delle giovani generazioni) sui tradimenti degli italiani nei confronti dei giovani. Un libro non convenzionale, scritto con linguaggio fresco e diretto che, pur non rinunciando al rigore dell'analisi, non fa concessioni ai tecnicismi, non assume toni ex cathedra e non esita a ricorrere a espedienti letterari (come le tre storie iniziali, emblematiche di tre differenti generazioni) per "raggiungere" un pubblico vasto. Un libro che si raccomanda soprattutto perché aiuta a capire come non sia l'economia a tradire i giovani, bensì la negazione dei principi su cui dovrebbe basarsi il suo corretto funzionamento, ossia la concorrenza, il merito, la libertà di azione, la cancellazione di barriere e privilegi. Elsa Fornero
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