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Anno edizione: 2004
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Opera imprescindibile per conoscere a fondo questo grande poeta. Dalle sue prime esperienze giovanili (Le stelle de Roma) alle sue ultime poesie si può apprezzare il cammino e la crescita artistica di questo grande cantore dell'animo umano. L'ironia e l'arguzia con la quale chiudeva i suoi componimenti non possono nascondere la sua lettura spesso malinconica delle umane meschinità e per questo anche oggi risulta così attuale. Ottima la scelta di inserire anche i brani di prosa ed eccellenti e puntuali i commenti e le riletture delle poesie
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I curatori della meritoria edizione nei "Meridiani" di tutte le poesie romanesche di Trilussa non vogliono sentir parlare di Belli. Lucio Felici e Claudio Costa, sulla base della ricognizione capillare e metodica che ha consentito loro di ampliare significativamente il corpus in questione e di sorprendere nel flagrante delle correzioni la consumata perizia in esso dispiegata, chiedono concordemente una moratoria dei luoghi comuni critici sull'opera di Carlo Alberto Salustri, in arte appunto Trilussa (1871-1950), a cominciare dal confronto inevitabile ma abusato e fuorviante con l'autore dei Sonetti per antonomasia. Cedendo alla tentazione di paragonare la poesia di Trilussa, programmaticamente umbratile ("Li preggi spesso fanno / più danno che vantaggio. / No, no, nun me ne curo… / È mejo sta' anniscosto! / È mejo sta' a l'oscuro!"), con la violenza inaudita, la comicità esplosiva, il dialetto interamente devoluto all'espressione del suo predecessore, non si può che constatare accademicamente la difformità della singola occorrenza da un tale paradigma, salvo poi addebitargliela in termini di superficialità.
Quanto al dialetto di Trilussa, il referto autorevole di Tullio De Mauro, che ne riduceva le differenze dall'italiano a un "arrochimento di voce", è appena suscettibile di illustrazione. Senza sopravvalutare le modifiche apportate alla proposta di Belli, non si può ignorare l'assoluta parsimonia che lo governa e per la quale, a una trascrizione molto più sobria rispetto a quella fonetica belliana, si accompagna una coerente interpretazione ultrabelliana del romanesco, ricondotto sempre a una deformazione o a un processo degenerativo, ma di modestissima entità, se non soltanto a una diversa pronuncia. Con la medesima sobrietà, la poesia di Trilussa sembra assicurarsi autorizzazione e accoglienza amichevole, puntando sull'attenuazione e sul pudore ("ve la potrei ridì… ma nu' la dico. / Nun faccio er cantastorie de me stesso"), che traducono in chiave psicologica e soggettiva ed estendono la portata di un'indicazione di poetica ancora una volta idealmente belliana: quella che viene dallo spoetizzante contesto dialettale e dai suoi allegati più antropologici che sociali ("Semo grevi, sboccati, indiferenti, / senza ideali, senza sentimenti…") e comporta la cancellazione di automatismi retorici ("Eh, 'sto gran mondo quanto è piccinino! / 'Sta bona società quant'è cattiva!") e buone intenzioni ("un omo che je piace / d'esse lasciato in pace").
Anche quando non la cerca ("Lo sai ched'è la Bolla de Sapone? / L'astuccio trasparente d'un sospiro"), con poco e in cambio di poco, Trilussa – la strategia tutt'altro che ingenua che risponde a questo nome –trova quasi fatalmente la sua poesia, cioè una miscela in cui, di nuovo all'insegna della parsimonia, l'arguzia oltre che per sé parla anche per conto dell'intimità ("Ma quanno me so' visto così serio / m'è venuto da ride…") e l'autoironia per la tenerezza: "È passata quell'epoca! D'artronne / me so' invecchiato e poco più m'impiccio / d'affari, de politica e de donne". Che il suo segreto consistesse nelle facilitazioni, non nella poesia facile o nella demagogia ma nella diffusa persuasione che le condizioni da lui offerte fossero imbattibili, stenterà meno a credere chi, attraverso sia la mirabile cronologia che l'ampia sezione delle Poesie sparse, avrà ripercorso l'onorata carriera della ditta che era anche un poeta chansonnier e copywriter, attirato dal cinema e dalle attrici, caro a Benedetto Croce e più caro alla bellissima Lina Cavalieri, amico e compagno di viaggio di Fregoli e autore dei testi del comico Maldacea, ispiratore di Petrolini e interlocutore di Scarpetta e Eduardo, nonché sodale di D'Annunzio, compagno di strada di Corazzini, lettore di Gozzano e della "Voce".
La fortuna di Trilussa presso il pubblico rimane eccezionale. Lo è stata anche di più, negli anni della sua lunga e felice operosità, quando la poesia, dopo essere stata simbolista e crepuscolare, parlava una lingua per definizione lontana dalla comprensione dei lettori comuni ("Se vôi l'ammirazzione de l'amichi / nun faje capì mai quelo che dichi": in un componimento del 1937, intitolato Pappagallo ermetico) e si sottraeva a ogni forma di compromissione politica. Nel frattempo, i risvolti illiberali e autoritari della belle époque avevano già presagito e preparato la follia della guerra che "purifica la terra", e in cui invece gli eserciti "scannaveno la gente / pe' nun concrude gnente!", e persino la dittatura fascista, con il suo corredo di servilismo e rituali ridicoli (come Er saluto romano: "Io, però, che conosco l'idee sue, / un giorno o l'antro, invece d'una mano, / finisce che je l'arzo tutt'e due").
Anziché però invocare maramaldescamente il continuo successo di pubblico della poesia trilussiana, a sostegno della rivalutazione di Felici e Costa, vale la pena di prendere sul serio la riserva fondamentale dei suoi critici meno benevoli. È evidente il radicamento di Trilussa in una mentalità forse a torto definita piccoloborghese, ma sicuramente esemplificata dai valori di prudenza, moderazione, buon senso, nonché da antintellettualismo e moralismo, che alla mentalità piccoloborghese vengono di solito associati. Da questi valori discende la centralità del tema politico, o meglio della satira contro la politica, e della polemica misogina. Per l'una e per l'altra, viene spontaneo parlar di qualunquismo. E avrebbero il loro daffare Costa e Felici, per difendere dall'accusa il loro assistito, se non si potesse utilizzare l'argomento potentissimo dell'irrilevanza manifesta del fin troppo sobrio arredamento ideologico della testa di Trilussa, come i suoi ragni, troppo preso a tessere la fragilissima tela della poesia, e dello stesso dialetto, per affidarle il compito oneroso di elaborare o anche solo sostenere un'idea: "più che di' la verità da solo, / preferisco sbajamme in compagnia".
La sua modernità sta nella naturalezza con la quale, dietro le onnipresenti maschere degli animali, ma anche dietro quelle idee sottilissime e inconsistenti che sono i luoghi comuni piccoloborghesi, e persino i luoghi comuni dello scetticismo e della protesta, dopo che il metodo del pudore ne ha certificato la letteraria autenticità, la poesia si fa portavoce di uno stato d'animo inespresso e eloquente, o proprio della scontentezza, esclusa dalla speranza e tentata dalla rassegnazione, di chi dentro la saggezza e la moderazione continua a trovare, e a nutrire insieme con la parola, il verme del dubbio che la moderazione e la saggezza non siano ancora abbastanza poco.
Nicola Merola
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