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una via di mezzo tra un testo di una canzone di battiato e una poesia del ministro bondi. Una sequenza di sostantivi con allegati aggettivi dal suono molto colto ma in apparenza privi di altro senso se non quello di ammaliare il lettore. Illeggibile se non per coloro che si vogliono vantare di averlo letto.
Recensioni
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recensione di Esposito, E., L'Indice 1998, n.11
(recensione pubblicata per l'edizione del 1998)
L'impressione che voglio subito registrare rispetto a quest'ultimo lavoro di Vincenzo Consolo è quella di trovarmi di fronte a un'opera eccellente, a un romanzo bello e forte, capace di unire cronaca e memoria, storia e fantasia nell'amalgama tenace di un linguaggio ricco e di una coscienza - soprattutto - viva, che restituisce dignità a un fare letterario troppo spesso avvilito nella registrazione acritica di un accadere tutto quotidiano.
Romanzo? L'affermazione sarà subito da correggere se qualche nesso si stabilisce (e non è possibile non farlo) fra l'autore Consolo, che di romanzi-romanzi non ne ha mai scritti, e lo scrittore protagonista di quest'opera, che - ci viene detto - "Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch'era finita in urlo, s'era dissolta nel silenzio".
Si tratta infatti, sì, di una storia, e anche di una storia in cui accadono molte cose, ma che nulla concede alla facile cordialità del "raccontare" e che dà luogo a un libro difficile, a una scrittura che può apparire al primo tratto scostante, chiusa com'è in un impervio allineare immagini e associazioni non immediatamente attribuibili a un soggetto, non trasparenti nella loro referenza. Quasi tutti i capitoli iniziano ad esempio con una sequenza (cap. IV: "Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla, esito fra ruderi sferzati dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse..."; cap. VI: "Grano a grano alza tumuli, colline, copre mura, tavole, archivi statuali, crea immense oscurità, fantastiche rovine, serra spalti, contrafforti metafisici") i cui dati il lettore imparerà solo pian piano ad attribuire al paesaggio o piuttosto al pensiero del protagonista, e che solo pian piano riveleranno la loro ragione. D'acchito, essi non ci appaiono che fotogrammi di un film al quale sia stato sottratto il sonoro, segni o simboli di una realtà di cui ci è nascosta la chiave: e tali, in alcuni casi, sono effettivamente, immagini non di una pellicola ma di un sogno o di un incubo, segni dunque, sì, ma tutti da interpretare.
Ma se impervio è l'avvio, e sempre laboriosa l'appropriazione dei particolari (anche semplicemente per ragioni lessicali, vuoi per la dotta precisione di "borragine", "refoli", "dracene", "mucido", vuoi per la patina dialettale di "marabutto", "catoio", "restucce", "cafisi"), chiara emerge presto, dall'andirivieni del discorso, dallo sguardo del protagonista intorno a sé e nella memoria, la traccia di una storia che è storia di una crescita dolorosa e di una incipiente senilità (perduto un amore che era forse l'unica ragione di vita), e insieme storia del tempo che abbiamo tutti noi recentemente vissuto, di una rivolta giovanile naufragata nel terrorismo e nella repressione, di una Palermo e di uno Stato insidiati dalla prepotenza mafiosa, di una cultura che cerca invano di porre argini e di costruire ragioni, e che sembra sempre soccombere: come il giardino, qui, di Mauro Martinez, coltivato a lungo con amore per essere poi sepolto sotto il cemento dell'interesse e dell'odio.
A che cosa credere? "Giorni trascorse a rimettere ordine fra i libri. Da questi doveva ricominciare, dalla chiara geografia, dai confini certi, dal conforto loro, per potersi orientare, riprendere la strada. Oltre, non era che mutamento, cancellazione d'ogni segno, realtà infida, landa d'inganno, sviamento". Ma sono davvero "certi" questi "confini", o la bomba che esplode nell'ultima pagina del libro, come nel luglio 1992 esplose davanti alla casa del giudice Borsellino, ne sancisce infine l'esser vani? "Nulla è sicuro, ma scrivi", diceva Franco Fortini in anni che il terrorismo dovevano ancora vedere ma che bene conservavano la memoria di altre morti e stragi. E Consolo risponde forse a un imperativo analogo, e lo fa da narratore, con un romanzo che difficilmente entrerà nelle classifiche ma che ci auguriamo abbia i lettori che si merita.
Ma sulla difficoltà vorrei dire un'ultima parola. Consolo ha tentato da sempre una strada narrativa che, nel dipanarsi del suo linguaggio, sapesse cucire presente e passato secondo prospettive necessariamente complesse, raramente illuminate da un'unica fonte di luce. Ne sono risultati romanzi, o forse poemi, che hanno suscitato interesse soprattutto da parte della critica, ma che sono sembrati a volte troppo volutamente costruiti, ricercatamente sperimentali.
L'opera di oggi ci avverte, se ce ne fosse bisogno, che lo sperimentalismo cui egli va letterariamente ricollegato non è quello funambolico e tutto verbale di matrice neoavanguardistica, ma quello vittoriniano (e di Vittorini si trova in queste pagine il modo di rievocare il tempo "dei fervori e dei furori (...), delle utopie infrante e dei lirici abbandoni"), imprescindibile dalla componente civile ed etica: che è qui presente nella sua forma migliore, quella che aveva fatto plaudire al "Sorriso dell'ignoto marinaio" e che ha perfino acquistato, rispetto a quell'antica prova, una linearità e nettezza che ulteriormente la fanno apprezzare.
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