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Vi è mai capitato di leggere un libro e di ridere talmente tanto che dalle altre stanze vi chiedano se va tutto bene? Di svegliarvi al mattino e di pensare per prima cosa a Graziano Biglia o a Pietro Moroni? Di uscire dal lavoro e di voler andare diretto a casa per continuare a leggere? Per me è stato così e non so se mi è mai capitato di divertirmi così tanto leggendo un altro libro, triste, ingiusto, esilirante e folle come gli abitanti di Ischiano Scalo.
Ti prendo e ti porto via coinvolge e prende con la sua verità e il suo realismo, raccontando in modo impietoso un mondo difficile, i cui i personaggi sono delineati con precisione e chiarezza estreme. Il piccolo paese, le condizioni senza via di uscita del giovanissimo Pietro, i bulli, lo squallore di un playboy in declino, la disperata solitudine di una professoressa si intrecciano in una narrazione forte e profondamente pervasa di umanità che lascia amarezza, disillusione e tristezza. E' la vita, quella di persone di carne e sangue che ti restano addosso anche a distanza di tempo. Un bel romanzo da consigliare senz'altro, che descrive con un linguaggio immediato, intenso e scorrevole una vicenda e i suoi protagonisti senza cedere ad alcuna forma di buonismo e di retorica.
Senza dubbio il miglior romanzo di Ammaniti. Emoziona, commuove, fa incazzare e diverte. Lo leggi e lo rileggi con estremo piacere.
Recensioni
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"… mezzo morto e acciaccato come una formica a cui è finito in testa un vocabolario…". Bisogna riconoscere a Niccolò Ammaniti almeno di avere rinnovato il repertorio di similitudini cui attinge il nostro immaginario letterario. E a ben vedere anche certa sua assenza di scrittura, in un paese pieno di squisiti prosatori d’arte, si rivela funzionale a una vocazione di incontenibile storyteller, che si è nutrito ugualmente di
recensioni di La Porta, F. L'Indice del 1999, n. 10
La scrittura, nelle pagine di Ti prendo e ti porto via, più che non esserci non si vede, diventa quasi trasparente, e ciò rappresenta la virtù di un narratore che intende soprattutto costruire universi affollati di personaggi e storie intrecciate (essenzialmente qui due storie parallele di coppie, di diversa età, che si incontrano solo per un attimo, e intorno a loro una moltitudine di comprimari e caratteristi). Accennavo alla proliferazione di traslati e poi all’uso anche molto divertente dell’iperbole, quasi a marcare continuamente una viscerale identificazione dell’autore con la propria generazione, direi su un piano retorico. Non tanto quindi l’uso manieristico dei tic dello slang giovanile, alla Brizzi (forse più dotato stilisticamente ma più sterile dal punto di vista narrativo), quanto l’attenta restituzione di un universo del discorso capace di esprimere in filigrana la verità più nascosta (e involontaria) dell’inconscio generazionale. Quando la Uno turbo Gti viene definita "bara motorizzata che filava come una Porsche, beveva come una Cadillac e si accartocciava come una lattina di cocacola", o quando leggiamo "sentiva il suo sguardo passarle addosso come uno scanner" abbiamo la sensazione che la pagina di Ammaniti si diverta a mescolare suggestioni diverse per trasmetterci uno stile (del pensiero, dell’esistenza) che appartiene all’epoca: Topolino e Gypsy King, Poirot e Herman Hesse, narrativa di genere, microleggende metropolitane, commedia all’italiana, classici letterari rimasticati, aforismi postmoderni… Se dovessi indicare dei modelli autarchici (a parte i riferimenti extraletterari, più o meno trash, dal fumetto ai B-movies) citerei Sandro Veronesi (per l’ironia metanarrativa un po’ settecentesca: "Ci si potrebbe chiedere che diavolo ci facesse Erica…") e Andrea De Carlo (accentuata visività, stile paratattico e periodare staccato). Ogni tanto la narrazione viene inframezzata da digressioni scientifiche, in cui perlopiù si parla di zoologia (ma non solo: c’è un passo molto accurato sulla definizione del concetto di ansia): dunque, ad esempio, il comportamento dei licaoni o dei lamantini (gigantesca e obesa foca albina), che serve a descrivere metaforicamente comportamenti e dinamiche dei personaggi. E anche qui si sentono tanto Piero Angela e "Quark" metabolizzati da un adolescente con fantasia. Ritornano poi certe costanti dell’autore, il dettaglio crudo e iperrealistico (il rumore della cartilagine del setto nasale spezzato – lo stesso dei denti che affondano in un Magnum Algida –, o anche la corazza della tartaruga distrutta a martellate) e il comico-grottesco-sentimentale.
Si è detto della maestria con cui l’autore sa governare una narrazione multistrati, ben diversa e più impegnativa dei racconti precedenti e dell’opera d’esordio. Eppure lungo le oltre quattrocento pagine di un romanzo corale così godibile il ritmo a volte si attenua, tradisce qualche stanchezza. Come mai? A lasciare perplessi è forse il punto di vista del narratore: "Alima, diciamocelo pure, non era Miss Africa…". Già, ma chi sta parlando qui? Chi è questo narratore onnisciente e un po’ dispotico, che orchestra con perfezione quasi spietata la miniepopea del paesino maremmano di Ischiano Scalo decidendo pause, colpi di scena, coincidenze, e che si mostra però così vicino ai suoi stessi personaggi da condividerne in modo imbarazzante gusti e umori? Una complicità che dà un senso di déjà vu, di giochino un po’ risaputo e replicabile all’infinito.
Letteratura di (buon) intrattenimento? Possibile best-seller di qualità? Categorie qui non improprie. Temo però, riconoscendo ad Ammaniti tutto il suo (raro) talento affabulatorio, che anche per intrattenere non basti lo scialo di storie e personaggi e destini, né un tocco finale di tragico (in verità esteriore) che si aggiunge per dare più peso a un’iniziazione fatta quasi solo di aneddoti: occorre soprattutto un’attitudine a interrogare caparbiamente e a fondo questi destini (senza pretendere di risolverli), perfino una capacità (da parte del narratore-demiurgo) di lasciarsene sopraffare ogni tanto.
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