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Borges. Basta il suo nome. O lo si ama, o si odia la letteratura.
Mi dispiace leggere della poca cura in certi particolari e addirittura delle approssimazioni e degli errori. Purtroppo non sarebbe la prima volta che Mondadori e la collana Meridiani farebbe una scelta discutibile, però in generale la collana ha dei suoi punti di forza, ad esempio nella Recherche prousstiana che forse in Italia si può considerare l'edizione di riferimento. Un maggiore controllo editoriale da parte di Mondadori non farebbe che farci piacere, ma queste cose tenderei ad aspettarmele maggiormente dalle piccole case editrici. Per quanto riguarda Borges, mi sembra però riduttivo ricondurlo alla sola letteratura ispanica, in quanto la sua formazione letteraria risulta piuttosto cosmopolita e multiculturale. L'idea dell'Aleph, per dirne una, credo sia stata ripresa pari pari da un racconto di Kipling, uno dei suoi perferiti insieme a Stevenson. A ben guardare infatti è evidente la conoscenza della letteratura e della cultura inglese nella fattispecie ma non solo, ed è divertente trovare da soli (come a me è capitato di imbattermici per caso)le citazioni e i numerosi riferimenti presenti nei testi. Peccato che l'apparato critico sia quasi inesistente a fronte di un'edizione tanto prestigiosa e rinomata a fronte di testi tanto colti e complessi, comunque credo che questi due volumetti possano diventare facilmente un oggetto di culto per noi biblofili(per me lo sono nonostante le mancanze). Anche perché qui, tra divagazioni erudite, epos argentino, considerazioni filosofiche e teologiche, poesie, è tutta la letteratura ad entrare in gioco: il sapere libresco universale che a volte fagocita anche se stesso(vedi le considerazioni sul sapere orale e su quello scritto con i rispettivi fautori, divertenti e profonde). Consigliatissimo a tutti i lettori.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1984)
recensione di Puccini, D., L'Indice 1984, n. 3
L'uscita di questo primo volume di "Tutte le opere" di Borges, a cura di Domenico Porzio, nella prestigiosa collana 'I Meridiani', è stata contrassegnata da una singolare anche se procurata fortuna: quella di coincidere con il recente viaggio dello scrittore argentino a Roma e con i festeggiamenti di cui è stato oggetto in questa città.
L'iniziativa editoriale italiana precede poi con discreto coraggio altre probabili iniziative del genere in Europa, e supera per completezza le stesse "Obras completas" stampate da Emecé in Argentina nel 1974, poiché si prevede che il secondo volume italiano verrà a coprire ben presto l'intera produzione letteraria di Borges: da tale data fino ai fatidici "giorni nostri". Compreso cioè "Atlas" (Atlante), pagine di viaggio con fotografie di Mar¡a Kodama, che è per ora l'ultima fatica di Borges.
Naturalmente, va inteso che la dizione "opere complete", sia per l'edizione argentina sia ora per l'italiana, significa soltanto tutto ciò che l'autore ha approvato e corretto con rigorosa e sacrosanta scelta: ma molti sanno che le pagine definitivamente respinte (compresi interi libri) sono numerose e non sempre trascurabili.
Nel presente volume, che taglia a metà, fino al 1960, l'opera non molto copiosa ma pure consistente di Borges c'è già tutto e, in un certo senso, ancor più che tutto di lui: delle tre opere iniziali in versi (quasi iniziali, ma non per questo meno "mature", e cospicue) alle "Finzioni" e a "L'Aleph" (come dire, i suoi capolavori) e a quel "L'artefice", che sanziona nella mescolanza di poesie e prose più che un modo di fare letteratura una vera e propria poetica, dove verso e narrazione si confondono deliberatamente. Nella premessa "Al lettore", del 1974, che qui compare in apertura di libro, ciò è enunciato con relativa precisione: "La prosa convive con il verso, forse per l'immaginazione entrambi sono eguali". Non si farebbe fatica, visto che Borges è stato sempre il più pedante e assiduo critico di se stesso (tanti sono i suoi prologhi e controprologhi tante le sue dichiarazioni e interviste) a trovare altrove, ancor meglio formulato, il medesimo concetto.
Anche in tal caso, oltre che nell'aggiornato e forse estremizzato idealismo che lo connota, lo scrittore argentino si dimostra buon allievo di Benedetto Croce, da lui più volte citato e acutamente intuito (e sta qui, mi pare, la sua maggiore simpatia o affinità italiana). Buon allievo nel non distinguere tra verso e prosa; buon allievo nel ricercare l'essenzialità del dettato; buon allievo nel finalizzare la poesia alla sua forma classica. (Il richiamo a Goethe, per Croce come per alcuni risultati borgesiani, è abbastanza pertinente). Ma un'altra dichiarazione ci viene in soccorso: quella del 1969, che appare nel "Prologo" di "Fervore di Buenos Aires" (p. 7): "A quel tempo, cercavo i tramonti, i sobborghi e l'infelicità; ora, i mattini, il centro e la serenità". Dove "centro" non sta necessariamente in contrapposto con "sobborghi", bensì completa il sentimento di serenità con una sottolineatura che rinvia a quella "ricerca del centro" che segna il passaggio dal romanticismo al classicismo, intesi, a torto o a ragione, come interni ricorsi vichiani di alcuni scrittori.
Dunque, Borges esordisce nella letteratura come poeta e con tre libri di versi: "Fervore di Buenos Aires" (1923), "Luna di fronte" (1925) e "Quaderno San Mart¡n* (1929), che solo queste "opere complete" ci permettono ora di leggere nella loro integrità e senza la troppo rigida guida dell'autore (quella, ad esempio, che presiede la antologia "Poesie", edita da Rizzoli nel 1980, con introduzione e note di Roberto Paoli e traduzione di Livio Bacchi Wilcock, dove solo figuravano sette poesie di "Fervore", due di "Luna" e una di "Quaderno"). I tre libri che Borges, nel 1930, aveva così descritti: "Alla fine del 1921 tornai in patria, evento che è nella mia vita una grande avventura spirituale, per la sua scoperta gioiosa di anime e paesaggi", rappresentano appena l'anticamera nostalgica e sentimentale della sua opera: una riappropriazione di luoghi (per lo più, periferia urbana) e di persone (per lo più, figure leggendarie), che si carica di senso (simbologia dell'intimo, della "frontiera", ecc.) nella prospettiva del Borges successivo. In ogni caso, quei tre libri aprirono allo scrittore, già nel '24, la porta alle antologie e all'apprezzamento di critici allora illustri, non solo argentini: quali Enrique D¡z-Canedo, una sorta di Pancrazi spagnolo, e il messicano Alfonso Reyes, quasi un omologo di Croce (entrambi da lui ricordati) e l'importantissimo Ram¢n G¢mez de la Serna, il padre di tutte le avanguardie ispaniche, che ne parlò sulla "Revista de Occidente" di Ortega y Gasset, proprio nel '24. Ma come Borges ha profondamente riveduto e ripulito i suoi versi d'ogni residuo di ultraismo (cioè di movenze avanguardistiche) e di guappismo (o di tanghismo), così ha cancellato dalla memoria quel primo 'santificetur' del buon Ram¢n, accanto al quale tuttavia appare in fotografia alla inaugurazione della rivista "Sur" (1931), caldeggiata anche da Waldo Frank, da Drieu la Rochelle e dallo stesso Ortega.
Bruciante è lo stacco dalla scrittura in versi iniziale rispetto a quella tardiva de "L'artefice", che chiude il primo volume: qui effettivamente ci troviamo già nel mondo dei simboli riflessi e statici ("poesia intellettuale", l'ha definita Borges) - specchi, biblioteca, scacchi, fiume, ecc. - che connotano la seconda e ultima fase del poetare borgesiano: quasi una riflessione ripetitiva e persino ossessiva della propria ansia metafisica, (Tanto valeva forse aprire con questo libro il secondo volume, al di là della quantità ''fisica'' della materia scritta).
Ma l'evento di gran lunga più affascinante a cui assiste il lettore in questa fase e in questo primo volume è senza dubbio il lento formarsi di quel prodotto composito, talora persino ibrido, e sicuramente singolarissimo che è il racconto o meglio la 'finzione' secondo Borges e in Borges. Nulla sembra restare escluso: n‚ l'estrosa recensione e divagazione narrativa che compone la pretesa biografia di "Evaristo Carriego", scrittore pittoresco-ironico-sentimentale che sta alle origini del tango e della milonga (una specie di Gozzano dei sobborghi bonaerensi); n‚ la "Discussione" critico-erudita-immaginativa su alcuni autori o argomenti prediletti; n‚ le due "storie", la "Storia universale dell'infamia" e la "Storia dell'eternità", che come tali si autoannullano già fin dal titolo, visto che è arduo fare storia di due entità senza evoluzione (per Borges la storia non esiste se non come cronologia), ma che pur rientrano nello stesso crogiolo narrativo-inventivo. Ed ecco, infine, sbocciare le "piezas" di "Finzioni", di "Artifici" e poi "L'Aleph", unico libro privo di prologo, perché Borges ha ormai scoperto il suo modo di affrontare "il genere fantastico".
E qui è tutto come si diceva. Un tutto che approda in una ricca e cordiale analisi nella lunga introduzione di Porzio: a cui è giusto dare atto di aver realizzato la non facile e certo utile e buona, opera di divulgazione di uno scrittore difficile ed eccentrico (eccentrico in più sensi) quale è Borges. Le perplessità cominciano, è d'uopo affermarlo, quando si paragona il volume borgesiano con altri dei Meridiani affidati a specialisti Joyce a Melchiori, o Swift a Masolino d'Amico) e provvisti di un opportuno corredo di numerose note e aiuto di vari annotatori: gli stessi che si è pensato di affiancare, per esempio, al Raboni traduttore di Proust. E non mi si dica che Borges non ha bisogno di note: lo ha dimostrato Paoli, nel già citato volume delle "Poesie", e lo esige una certa curiosità implicita al tipo di scrittore che è Borges: tutti ci siamo sempre chiesti da quali fonti nascano le sue suggestioni libresche e colte (e persino certi suoi trucchi) e quali connessioni (Paoli li ha definiti "percorsi") si stabiliscano tra una scrittura e un'altra scrittura. Ho l'impressione che di noi ispanisti si pensi come ad esseri più o meno inutili ("lo spagnolo è a portata di tutti") o come noiosi eruditi con tanfo di libri del secolo di Cervantes e di Quevedo. Ma bastava un semplice occhio aggiunto per capire che una edizione dove si mettono insieme ben sette traduttori diversi, con diversi criteri nel tradurre e annotare, non poteva che provocare incongruenze ed anche errori. Così, il "Martin Fierro" di Hern ndez è tradotto senza originale in nota a p. 226, e a p. 313 è trascritto in originale, con traduzione in nota (dò solo due esempi su venti); così, le poesie di Carriego sono tutte tradotte e prive di originale in nota: così il "Quijote" è riportato talora in originale, altre volte è tradotto; così in "Evaristo Carriego" si ha la spiegazione di "compadrito" e di "orillero", e in "Storia dell'infamia" il "compadrito" è già diventato, senza alcuna spiegazione, un guappo, e "orillero" viene tradotto con "popolare" (che è un errore). E qui mi fermo bruscamente, perché non sembri partito preso d'ispanista qualcosa che invece appartiene di diritto a tutti i lettori. Del resto, Porzio, espertissimo navigatore di testi letterari, sa molto meglio di me che il "vasto pubblico", se è ciò che si vuol taggiungete, proprio perché "vasto" è anche complesso e vario, e desidera da una edizione nuova qualcosa di più di una somma di tante edizioni vecchie, sia pure, prese una a una, di discreta o anche di egregia fattura.
Scrittore coltissimo e raffinato, Borges ha saputo calare nei suoi testi il gusto per l'invenzione e la suggestiva visione del mondo come labirinto, come immensa biblioteca. In due volumi dei Meridiani è presentata con testo a fronte quando si tratta di poesia la traduzione delle Obras completas 1923-1972 autorizzate dall'autore (Buenos Aires 1974), a cui Porzio ha aggiunto una scelta di testi successivi al '72.
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