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Il cane di Giacometti - Stefano Raimondi - copertina
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Il cane di Giacometti - Stefano Raimondi - copertina

Descrizione


"Da principio scelto come segno di miseria e solitudine, il cane mi pare disegnato adesso come spettro armonico, la linea della schiena che risponde alla linea delle zampe, spettro che sa essere l'esaltazione suprema della solitudine": così Alberto Giacometti diceva a Jean Genet, visitatore del suo atelier, nei primi anni Cinquanta. E l'oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d'abbandono, è forse davvero la cifra del nuovo libro di Stefano Raimondi, secondo tassello della sua trilogia dell'abbandono. Esplorare l'abbandono, il senso d'abbandono, dentro le parole e dentro l'orizzonte urbano (due dimensioni che in Raimondi da sempre si intrecciano, già a partire dal libro giovanile La città dell'orto, del 2002), ricercarne le costellazioni di immagini, le risonanze interiori, la voragine di un tombino che si spalanca e il viaggio che tuttavia si apre, in una luce incerta: ecco l'orizzonte di quest'opera, che abbandona, e forse supera, il parallelismo ustionante tra vicenda affettiva e devastazione bellica, così forte nel primo tempo della trilogia, Per restare fedeli (2013). Perché adesso "guardare da qui commuove e parlare non è più parlare. Il vero ci porta via." (Fabio Pusterla)
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Dettagli

2017
14 settembre 2017
104 p., Brossura
9788871687971

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alida airaghi
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Il leitmotiv che attraversa queste pagine è un senso acuto di impotenza e incomunicabilità, nostalgia e rimpianto, isolamento e timore. Facilmente rilevabili già da una prima, superficiale lettura, in cui riscontriamo da subito il reiterarsi di una stessa preposizione (“senza”, ripetuto una decina di volte), degli stessi verbi (tremare, finire, sparire), di aggettivi che paiono rincorrersi (spezzato, schiacciato, inutile, vuoto). Anche i nomi, sia quelli astratti (buio, paura, silenzio, abisso), sia quelli concreti (stortura, taglio, crepa) sottolineano continuamente l’idea di una ferita immedicabile, di un distacco doloroso, di un addio definitivo. E se nella descrizione degli interni (cucine e camere disadorne, fredde) si citano finestre, vetri, porte, le vediamo serrate od opache, mai in grado di segnalare un passaggio, un’apertura; mentre l’immagine che più caratterizza l’arredo urbano è quella del tombino, che grigio e gelido ha il compito di coprire i rifiuti della città. Una Milano disumana, quella raccontata da Stefano Raimondi, sfregiata da «scavi aperti», in cui la «vita rasoterra» si trascina per inerzia, tra muri sordi, cantine, ringhiere, parchi desolati, passanti «dormienti»: una metropoli malata, che non offre scampo o ancore di salvezza. «Ci si guarisce così nelle città: / aspettando». In questo libro di prose che sembrano poesie, e di poesie cadenzate narrativamente, il cane solitario di una scultura che Alberto Giacometti descriveva all’amico Jean Genet è puro pretesto allusivo per Stefano Raimondi, essendo tutto interiore il cane che gli accerchia i pensieri e rode il cuore: scodinzola, ringhia, minaccia, tiene a bada, morde, annusa, insegue. Impietoso come ogni solitudine dopo ogni abbandono.

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