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Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici - Marco Scotini - copertina
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Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici - Marco Scotini - copertina

Descrizione


Dopo la crisi finanziaria del 2008 è evidente che una indagine attenta dello «stato dell'arte» non può prescindere da una critica di quei meccanismi che creano l'illusione dell'esposizione come spazio aperto, non codificato, estraneo alle gerarchie prestabilite e alle egemonie d'impresa; come anche il nuovo ruolo assunto dai pubblici dell'arte nelle industrie creative e nell'economia dell'evento. Eppure nell'ultimo decennio numerose sono le esperienze artistiche, espositive e museali che hanno proposto nuove pratiche e nuove forme di relazione con gli spazi, le opere e il pubblico stesso. L'arte contemporanea si rivela così capace di misurarsi con il terreno della politica, facendo della critica all'economia e alla società neoliberale il luogo in cui mettere alla prova la libertà artistica come tale. Biennali e pubblici, misure del valore e display, mediatizzazione e attivismo sono al centro di questa disamina da cui lo statuto dell'arte non risulta più lo stesso, così come le sue funzioni e i suoi ruoli. Il libro raccoglie contributi critici su Guy Debord, Peter Friedl, Alberto Grifi, Sanja Ivekovic, Armando Lulaj, Deimantas Narkevicius, Oliver Ressler, Harald Szeemann, Franco Vaccari, Paolo Virno, Clemens von Wedemeyer, Li Xianting, fra gli altri.
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Dettagli

2016
1 dicembre 2016
Libro universitario
288 p., ill. , Brossura
9788865481721

Voce della critica

Marco Scotini, Urla contro la fabbrica loquace

Di spalle, almeno una dozzina di persone. Stanno in piedi davanti alla facciata di un palazzo, nel rumore ordinario della città, rispettando la posizione e indossando dei cartelli bianchi. Stacco. Un uomo con gli occhiali si volta: “L’ingiustizia oggi cammina con passo sicuro”, dice il suo cartello scritto in cirillico.

Il frame iniziale di Angry Sandwich People, il video del collettivo russo Chto Delat/What is to be done?, che trasforma la protesta in un happening urbano, apre le porte, già in copertina, verso il lungo itinerario con cui Marco Scotini conduce il lettore dentro la fabbrica dell’arte contemporanea. Una fabbrica connotata innanzitutto dal riuscito neologismo che intitola il volume, Artecrazia.

Tre sezioni – dedicate alle esposizioni, ai pubblici e agli schermi – organizzano i ventiquattro contributi che, in larga parte, compaiono per la prima volta in italiano. La destinazione internazionale della scrittura di Scotini è rilevante poiché denota un tono che non rimanda a concessioni o fraintendimenti. Ovvero: rispetto a quanto si pubblica abitualmente nel contesto nazionale – mi riferisco alla maggior parte degli interventi critici presenti in riviste specializzate e non, dove spesso il dibattito si riduce a una giustapposizione di censimenti, oppure alle sciocche categorie del like o del dislike, della adulazione o del pettegolezzo – qui le affermazioni sono portate in maniera chiara e diretta. Abbastanza da generare, durante la lettura, la superficie di attrito necessaria a ridurre la distanza tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo dell’arte contemporanea e del suo sistema.

La densità dei passaggi tra le questioni sollevate rende irrealizzabile ora una ricognizione dettagliata, però è opportuno sottolineare la disinvoltura con cui Scotini (già autore di Politiche della memoria, DeriveApprodi 2014) trasforma la sua digressione in una sorta di ri-assemblamento filmico di un presente sempre più dislocato. In effetti, la coralità di voci chiamate in causa (tra gli altri Charles Esche, Peter Friedl, Sanja Ivekovic, Harald Szeemann, Franco Vaccari, Paolo Virno, Li Xianting, Deimantas Narkevicius, Clemens von Wedemeyer) contrappone al tempo dell’Artecrazia, cioè “del governo di un numero ristretto di eletti in grado di legittimare la propria funzione assegnando ruoli”, il tempo di un’arte decentrata, plurale, determinata a non investire energie e capitali soltanto sull’attesa e sulla fidelizzazione dei pubblici, sulla cattura del sapere, sulla sua capacità persuasiva o sul suo potere di generare relazioni – insomma, su tutto ciò che Christian Marazzi, con una metafora in prefazione, attribuisce alla “fabbrica loquace”, un dispositivo di comunicazione talmente persuasivo da affievolire persino i conflitti percepibili nel contesto sociale. In un acuto saggio su Guy Debord, difatti, emerge in modo evidente quanto questa paradossale depravazione del nostro tempo – lo spazio concesso all’immagine – corrisponda a una sorta di avamposto capitalista: “indipendentemente da ciò che essa mostra o censura, l’immagine che comunque si dà a vedere è anche e soprattutto quella che nasconde tutte le altre”.

Ecco il motivo per cui, probabilmente, ogni testo è puntellato da insistenti domande in grado di smontare l’oggetto del discorso per lasciare emergere la sua matrice artificiale, neo-arcaica: generando un’interferenza nella rappresentazione che il sistema restituisce di sé, Scotini dimostra come la tendenza a dubitare di tutto, a spogliarsi delle rigidità del mestiere e della compiacenza del critico d’arte per inoltrarsi in derive filosofiche, narrative e filmiche, ci consegna un libro che mette a disagio. Un libro che, invece di cercare consenso, predispone a desiderare di ridistribuire la conoscenza, a lacerare la rete dell’auto-esposizione, ad arginare il tempo della produttività e, non da ultimo, a rifugiarsi in nuove configurazioni. Purtroppo per noi, però, la fuoriuscita da questi paradigmi sarà un’operazione quanto mai lenta e dolorosa.

Recensione di Gabriele Sassone

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