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Se parlare degli animali è impresa impossibile se non adottando retoriche antropomorfe dettate dalla prospettiva privilegiata del sapiens che sussume il mondo attraverso un vero e proprio regime dello sguardo disciplinante, parlare del loro utilizzo "è una faccenda densamente storica". L’ambizioso compendio divulgativo di Morus, alias dietro cui si cela il giornalista e storico tedesco Richard Lewinsohn, può essere un ottimo pretesto per riflettere proprio su quei processi storici che hanno determinato l’uso intensivo degli animali nelle dinamiche della civiltà e nei dispositivi del potere. In Gli animali nella storia della civiltà, opera pubblicata per la prima volta da Einaudi nel 1956 e ora riproposta nella bizzarra galleria sotto culturale OL per i tipi di Odoya Edizioni, Morus irride proprio quel concetto di storia lineare e progressivo che sembra animare il suo stesso monumentale progetto. L’enorme affastellarsi di dati, date, avvenimenti, numeri, statistiche, fonti bibliografiche scientifiche e filosofiche deprime il desiderio di esaurire il soggetto elettivo della sua ricerca che la prassi storicista cerca di far proprio in modo compiutamente argomentativo. Arrivati alla fine dell’opera si è più che mai consapevoli di quanto gli animali siano irriducibili a ogni definizione che non sia quella legata alla loro strenua paradossalità.
Dalle parole di Morus affiora continuamente un senso di frustrazione per quello che si rivela, nonostante le molteplici dissimulazioni scientifiche, un vero e proprio mistero. Mistero infatti è una parola che ricorre spesso fra le pagine, lasciando trapelare un sentimento di panico che ci attanaglia quando l’ideologia storicista sembra prendere il sopravvento su una materia incandescente come quella che riguarda la vita degli animali. La Storia infatti, secondo la lezione marxiana di Mario Tronti, non ha sufficientemente preso in considerazione il lato oscuro dell’umanità, quel male (quel mistero), che ha prodotto nel passato e continua a produrre nel presente sfruttamento e dominio non solo sulla persona – che individua la maschera sociale umana – ma sulla vita tutta. In altre parole si tratta di sperimentare una spiritualità conflittuale e materialista che cominci a prendere realmente in considerazione l’altro in quanto eterogeneità irriducibile e riconoscere l’altro animale – aggiungo io – come paradossale sinonimo di umano. Il libro di Morus, pur con tutti i limiti del caso, produce continui slittamenti di senso grazie anche al suo involontario anacronismo. Scritto in un momento in cui la questione animale non aveva ancora prodotto quel salto ermeneutico e politico che vedeva nella liberazione animale un’emancipazione dal semplice sentimento compassionevole che aveva animato il dibattito delle varie associazioni protezioniste, l’opera riserva ad un lettore smaliziato sorprese e veri e propri colpi di teatro. Uno snodo importante del libro riguarda la questione della violenza. Un tema che sembra orientare ed esaurire il problema dello sfruttamento degli altri animali attraverso l’abusata idea che esso sia un semplice prodotto di dinamiche culturali, per cui basterebbe smontare una serie di pregiudizi morali perché si affermi quella considerazione che riconsegna all’animalità la dignità compromessa. Il problema è mal posto perché quello che ancora calamita la discussione non è l’animalità dell’uomo ma la sua naturalità culturale. L’apparente ossimoro evidenzia come l’uomo e l’animalità si contrappongono in una lacerazione che determina storicamente la specificità umana. Per Bataille l’uomo è l’animale che non si limita ad accettare il dato naturale (ma) che giunge a negarlo…Parallelamente, l’uomo nega se stesso, si educa, rifiuta per esempio di dare alla soddisfazione dei propri bisogni naturali quel libero sfogo a cui l’animale non poneva alcuna riserva. Insomma la doppia negazione con cui l’uomo si congeda sia dalla natura sia dall’animale esplicita in qualche modo il tema della violenza come corruttrice della differenza che struttura gerarchicamente le comunità umane. La violenza (animale) rappresenta un pericolo, una minaccia per l’ordine delle società umane, incentrato sulle differenze di stato sociale, di genere e di specie. L’animale in cui si può pericolosamente confondere l’umano rappresenta la violenza che abolisce e inibisce la differenza che discrimina il vivente in base alle proprietà acquisite e in cui il lavoro, secondo Bataille, gioca un ruolo affatto secondario. Infatti in quanto esiste l’uomo, esistono anche il lavoro e la negazione mediante divieti dell’animalità dell’uomo.
Recensione di Emilio Maggio.
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