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Anno edizione: 2008
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recensione di Massino, G., L'Indice 1994, n. 1
Quando nel 1981 Yaakov Shabtai moriva a soli quarantasette anni, la sua esigua opera l'aveva imposto come il talento eminente della letteratura ebraica contemporanea. Questi splendidi racconti, egregiamente tradotti, sono ambientati prevalentemente a Tel Aviv, parte negli anni che precedono la seconda guerra mondiale - ma i contorni storici rimangono evanescenti - parte nel periodo postbellico. Filo conduttore è la rievocazione dei personaggi del mondo dell'infanzia, un mondo colto nel momento del suo definitivo distacco dalle tradizioni dell'ebraismo della diaspora. Non è un caso che gran parte dei personaggi di questi racconti appartengano alla generazione intermedia fra quella dei nonni ancora radicati nei modi di vita dell'ebraismo orientale, e quella del narratore, occidentalizzata, definitivamente secolarizzata. Shabtai è per più versi l'ultimo cronista della grande avventura sionista giunta, nel mondo da lui descritto, a un punto finale, al luogo in cui non c'è più spazio per un altrove, come non c'è altrove per lo zio Perez il cui volo può concludersi soltanto nel cortile di casa. Scevri di pathos per la leggerezza e l'ironia che rendono anche gli eventi drammatici semplici e naturali, i racconti narrano per lo più l'incontro con qualcosa di ultimo, di ineluttabile, di fronte a cui il senso della vita e i piccoli o grandi argini di difesa quotidiana subiscono un corto circuito e vengono meno. I personaggi di Shabtai, eccentrici o disincantati, patetici o struggenti, scettici o entusiasti avvertono tutti la presenza del caos e dell'indefinibile che lentamente matura e si fa strada nella loro vita, fino a esautorarli completamente. È così per lo zio Perez il cui anelito rivoluzionario s'arena, nell'amore per la giovane Gheula, sull'incapacità di abbandonare la moglie, di accettare il dolore insito in ogni cambiamento, incapacità che tramuta il desiderio di "volo" in un delirio di fissità e di morte; è così per i due pittoreschi zii Shmuel e Pinek, pervasi da un furore imprenditoriale che dà vita a un movimento inarrestabile, un'incontrollabile fuga verso il vuoto; o per Haiim Baruch, ossessionato dall'idea di trovare la pietra originaria, il modello primo fra le infinite pietre vulcaniche dell'isola di Mauritius, fino che il principio unificante della vita non gli si rivela nella potenza travolgente di un ciclone, incontenibile massa d'aria che diviene all'improvviso rarefatta e immobile e gli si fa incontro nelle sembianze di "un'entità vuota, che tutto riempiva, bianca e azzurra, vaga e luminosa come la luce dell'aurora...".
Shabtai è maestro nel cogliere lo smarrirsi del senso umano di fronte agli elementi ultimi, non più divisibili della natura, segni di un'esistenza refrattaria agli interrogativi dell'uomo: il buio della notte, il grigio del cielo, l'opaca uniformità del mare e del suo infinito boato. E così pure nel descrivere lo svanire proprio della dimenticanza, di ciò che non è più ricordato. La perdita della memoria, l'impossibilità di rievocare i volti e le figure del passato, costituiscono anzi il motivo più ricorrente in questi racconti L'essenza della vita pare quasi risiedere in ciò che si dimentica e svanisce (si veda ad esempio il racconto "Memorandum"). Il presente storico di Shabtai è percorso dal demone della cancellazione e dell'oblio; un oblio che non riguarda solo il soggetto ma è anche quello della tradizione. Non a caso il primo racconto del libro è dedicato alla figura del nonno, la cui devozione è un misto di gesti arcani e di paranoico feticismo, ultimi segni tangibili di una fede che appare ormai sinistra e incomprensibile. Unico personaggio a reggere nel vuoto della memoria è la nonna che dalla lontana Polonia ha portato, insieme alle povere masserizie "che continuavano a servirla qui come laggiù", la saggezza e la certezza di un'identità che nasce dal ricordare. Per lei le date di morte dei parenti trovano naturale collocazione sul frontespizio del vecchio libro di preghiere; ma quel libro alcuni anni dopo la sua scomparsa evoca soltanto qualcosa di irrimediabilmente perduto, svanito, come la nonna stessa di cui il nipote non riesce a ricordare quando sia morta ma soltanto che tutto avvenne in un giorno freddo e nuvoloso. E tuttavia in Shabtai il lettore non troverà nulla della mestizia di tanta letteratura contemporanea. Il mondo di questi racconti è sì "pieno di abissi e misteriosi meandri", ma sono abissi che traboccano di vita, come le pietre laviche di Mauritius da cui emana una primordiale, oscura, energia rigeneratrice. L'universo di Shabtai è percorso da una continua metamorfosi, da una trasformazione incessante che è tutt'uno con l'inesauribile espansione della creatività dell'autore e della sua scrittura icastica, caratterizzata da un uso tipicamente ebraico - ma davvero sorprendente - delle similitudini, che come un'onda attraversano le cose e le animano, uniscono ciò che è vicino con ciò che è lontano, aprono lo sguardo su orizzonti inattesi, rivelano corrispondenze assopite sotto la scorza delle cose.
Testimone di un'epoca che vive nell'incapacità di ricordare, Shabtai, come i personaggi di una nota storiella chassidica, riesce a far rivivere il miracolo della memoria ebraica con la forza della narrazione. In questo senso egli si impone anche quale autentico erede della grande letteratura ebraico-orientale in cui l'anelito all'assoluto non offusca mai la 'pietas' verso l'umano e il marginale. Effimeri e fragili nella loro umanità, i personaggi di Shabtai emergono poi dalle pagine di questi racconti inconfondibili e indelebili, poiché nascono dalla "vera tenerezza" di cui parla la lirica di Anna Achmatova che dà titolo a uno dei racconti più belli. La tenerezza della narrazione, della vera poesia.
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