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Un'introduzione a tutto tondo del filosofo Walter Benjamin, capace di attraversarne l'opera intera con efficacia e agilità, dove non mancano ampi riferimenti alla biografia e all'epistolario. Sebbene sia meno riuscito il capitolo primo, di contestualizzazione filosofica dei primi lavori di Benjamin, in cui si ripercorre la nozione benjaminiana di Kunstkritik a partire dalle teorie romantiche e da quelle idealistiche fichtiane, il libro risulta sempre convincente e originale laddove le dottrine di Benjamin fanno propria l'indagine storico-sociologica.
Il rapporto di Benjamin con la città, in particolare, colta nei suoi "perni e snodi nascosti" che sottostanno al complesso meccanismo sociale, è la felice chiave di lettura adottata dall'autore per rielaborare il pensiero filosofico benjaminiano a partire dai primi anni venti. I temi della fantasmagoria della merce, della moda, del desiderio collettivo, dell'utopia, dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (cinema, giornalismo, fotografia, pubblicità), nonché le analisi del Moderno come mondo degli inferi – così mostra Gilloch – scaturiscono tutti "dall'esperienza dell'ambiente metropolitano contemporaneo". Benjamin, filosofo in cammino fra i relitti della storia (quasi "frammenti testuali", allegorie del profano raccolte e collezionate attingendo ai nostalgici resti delle città-vetrina allestite dal capitalismo tra Otto e Novecento: pubblicità, réclames, didascalie che accompagnano il prodotto-merce trasfigurandolo in oggetto del desiderio ecc.), mostra così nella sua opera una compenetrazione profonda tra "architettura urbana e scrittura" filosofica. In Benjamin, per così dire, "il testo diviene 'come la città', proprio come la città diviene un 'cosmo linguistico', un testo" da interpretare. È dunque come se la città stessa offrisse a Benjamin "un modello di pratiche testuali innovative, un'architettonica letteraria radicale".
La città, in Benjamin, colta di scorcio attraverso rapsodiche illuminazioni improvvise (Denkbilder, o immagini di pensiero,è la parola chiave adottata da Benjamin), assurge così a testo filosofico da interpretare attraverso un processo ermeneutico totalmente dedito al particolare e al concreto, ovvero attento a quelle "topografie di luoghi" da doversi attraversare quasi "a tastoni": "La città va letta e rappresentata attraverso una resa quanto mai scrupolosa di tutte le sue apparenti minuzie e banalità: di ciò che è momentaneo, di ciò che è accidentale, di ciò che è sempre negletto".
L'analisi benjaminiana della città, sempre in bilico tra archeologia e utopia, tra narcotizzanti reviviscenze della preistoria e speranzosa attesa di un possibile futuro radioso dell'umanità, procede "attraverso giustapposizioni d'immagini", polarità di "miniature immaginifiche", istantanee micrologiche di particolari angoli, vie, facciate di edifici e incroci cittadini, alla ricerca di quelle impercettibili fenditure esplosive presenti nel tessuto urbano da cui possa emergere l'infanzia negata dell'umanità, la sua ancora possibile felicità o redenzione. Il filosofo Benjamin, "tecnico del testo" o "ingegnere estetico" a passeggio tra i cascami del passato offerti dalle intricate strade del labirinto cittadino, è colui che ha cercato di trasformare frammenti di mitologia urbana (il "panorama onirico" proprio della moderna metropoli, che ha il suo punto archimedeo nella fantasmagoria prodotta dal "feticcio merce") in veri e propri momenti di cesura e riscatto, che ha tentato dunque "di redimere momenti utopici autentici sepolti in forme mitiche". Tra gli spettri e i fossili che abitano il desolante paesaggio urbano, infatti, sono disseminate schegge salvifiche e monadi cariche di eternità, spunto di "illuminazione rivoluzionaria" e di "critica esplosiva": esse possono scatenare una vera e propria dialettica del risveglio, trasformando l'incedere mesto e rassegnato del flâneur nella figura del filosofo quale "architetto-ingegnere" impegnato nella prassi e aperto al futuro. Ciò corrisponde al motto benjaminiano secondo cui occorre "cercare di cogliere l'attualità come rovescio dell'eterno nella storia".
Far parlare da se stesso l'"elemento creaturale", evitando nell'esposizione qualsiasi astrazione deduttiva, corrisponde in Benjamin a quell'attenzione spasmodica per il dettaglio di vita storica volto a cavarne induttivamente, quasi con fiuto da rabdomante, l'intrinseco senso sovversivo, le arcane "energie rivoluzionarie". A tal fine il filosofo-ingegnere, come avviene nella Passagenarbeit, deve ordinare ogni frammento urbano (quali "resti riesumati dai passages in rovina") in costellazioni effimere e sorprendenti, che ribaltano l'assetto quotidiano e banale degli oggetti, assecondando una tecnica del tutto affine a quella surrealista del montage. Come osserva Gilloch: "Composti di una molteplicità di particolari accuratamente raccolti e giustapposti, i Denkbilder non sono tanto singole 'istantanee' quanto piuttosto rappresentazioni caleidoscopiche, mosaici in miniatura (…) 'montaggi'" dialettici di elementi estemporanei e fugaci. Questi sono oggetti desueti e antifunzionali (i marginalia del mondo della produzione, ovvero i suoi "prodotti di scarto") che oggi tornano ad avere "rilevanza attuale" per scardinare la compattezza lapidaria e soporifera di ogni forma di mitologia politica. In un motto quanto mai fedele al pensiero di Benjamin: non vi può essere redenzione se non "delle rovine del passato".
Gianluca Cuozzo
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