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Volevo tanto fare il tramviere ma mi hanno cambiato i tram
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1998
1 luglio 1998
192 p.
9788890017773

Voce della critica


recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1998, n. 6

L'autore aveva pochi anni quando imparò a guidare l'automobile, guardando tutti i giorni da dietro la ringhiera del balcone giù in strada il camioncino del cartolaio che faceva le manovre per l'inversione di marcia: "Quello era il punto culminante della mia mattina; le ruote anteriori spuntavano di sotto ai parafanghi, e si rintanavano di nuovo quando la macchina faceva marcia indietro e le ruote spuntavano dall'alta parte. Un trionfo di meccanica e di delicatezza". Nato nel 1917, cresciuto a Torino, matematico residente a Burlington nel Vermont, Gino Moretti ricuce sul filo di un'ironia appena velata di nostalgia gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza in un'epoca sospinta dal mito del progresso tecnico. I tram torinesi, con le targhe arabescate, la rotella scarrucolante, il manovratore che agli scambi apriva la finestra, calava una leva e muoveva l'ago, o "gucia", per spostare l'asse delle rotaie, ne erano il simbolo. La vita familiare borghese negli anni fra le due guerre, con i suoi piccoli accidenti e le sue spassose incongruenze, è rivissuta attraverso lo sguardo penetrante di questo giovanissimo e ostinato testimone delle meraviglie del progresso, vagamente misantropo a causa d'una possessiva protezione parentale.
Rievocazione deliziosa, verrebbe da dire usando uno stereotipo, sospesa sulle punte di un'aria mozartiana. E ciò potrebbe anche bastare per dar conto di un libro di memorie, stampato in edizione fuori commercio, con una dedica agli amici Marina Jarre e Norberto Bobbio. In realtà lo sguardo stupefatto che questo bambino e ragazzo apre sulla vita porta il lettore molto più lontano da quegli anni torinesi. La capacità, o la scelta, di prosciugare il racconto di ogni dramma, riportando patemi e problemi nell'alveo quieto e naturale del fiume che se ne va, suggerisce una concezione lievemente scettica, sottilmente epicurea, forse anche un poco sveviana, per cui nulla veramente pesa, sulle spalle del viaggiatore di questo mondo. Si vive perché si nasce e si muore: l'essere è soltanto un breve guado, uno scherzo rispetto alla continuità del non essere, come suggeriva, se non ricordo male, Achille Campanile. Mentre i giovani scrittori sembravano ammaliati dalla voga di attribuire cittadinanza drammatica anche agli episodi minimali, ai gesti quotidiani, al gergo rituale, l'ottantenne Moretti ci ricorda, con un pittoresco "sense of humour", come l'esistenza non sia altro che un'effimera successione di casi.
Al centro della storia la famiglia dell'autore. Con il padre magistrato che, avanti le nozze, girava all'impazzata fra Ivrea e Lanzo, prima con un calesse quindi inmotocicletta, un po' eccentrico, un po' iroso (""a saota come na fusletta"", parte come un razzo, diceva la moglie), ma a quarantadue anni mise la testa a partito per occuparsi del destino dei figli e per guidare l'automobile in avventurose ed esilaranti gite familiari fuori porta. Aveva sposato la cameriera dell'albergo dove aveva soggiornato quando era stato pretore nelle valli; a lei, nell'economia del racconto, è affidata la parte di riservata interprete del buon senso popolare e provinciale, una specie di coro che commenta gli avvenimenti sempre in un piemontese carico di proverbialità. Memorabile il nonno, imprenditore al quale a quarantaquattro anni, per via di un'operazione di cataratta, il medico consigliò di mettersi a riposo per non stancare la vista: "Fu allora che il nonno si fece la villa in collina, si iscrisse al Circolo Sociale di Piazza Castello e cominciò a riposarsi in attesa della morte. Aspettò quarant'anni, sommerso in una Noia superlativa".
Attorno alla famiglia ci sono naturalmente zie e zii, gli amici, i conoscenti, i colleghi di papà, i compagni di scuola, le maestre e i professori, la Tota Aymar, insegnante di pianoforte. È un piccolo mondo, che sembra vivere dentro un perimetro di tradizioni e abitudini, poco turbato da quello che poteva accadere al di fuori. Il fascismo resta abbastanza sullo sfondo, più che altro un fastidioso e ridicolo modo di abbigliarsi: "I bimbi d'Italia son tutti Balilla", si diceva, il che voleva dire che dovevano andare in via Bogino dal signor De Blasi, l'unico autorizzato a vendere uniformi fasciste". È un'Italia antieroica quella che rivive in queste pagine, dove ogni domenica mattina il piccolo Moretti litigava per non andare all'adunata dei Balilla, perché i pantaloncini verdi della divisa erano così ispidi da fargli le chiappe rosse sotto le mutande. Minimi e pudichi accenni a un'altra Italia punteggiano i ricordi, per esempio quando si parla del professore di filosofia al liceo, Ennio Carando, supplente che scorreva il registro standoci sopra con il naso, interponendo una lente fra occhiali e carte, che i fascisti avrebbero fucilato da partigiano.
In questa narrazione quasi confidenziale, in questo flusso senza drammi, la vera rottura è la modernità tecnicologica, ma il mutato punto di vista ci fa oggi sorridere di ciò che allora era innovativo, come le autostrade,"conclamata scoperta del regime fascista", da cui si usciva passando davanti alla casa del casellante, che con borsa a tracolla si avvicinava alla macchina, studiava il tagliando d'ingresso, richiedeva il relativo pagamento, scambiava banconote e monete e "si avviava, "a piedi", verso il cancello d'uscita che distava di solito una trentina di metri".Apriva la doppia porta, o alzava la sbarra con una manovella.""As fa pì prest a pasè da l'autra strà"", si fa prima a passare dall'altra strada, diceva la mamma.Ciò che ieri era avanguardia oggi è arretratezza.D'altronde il sottotitolo di "Volevo tanto fare il tramviere "suona: "Ma mi hanno cambiato i tram".
Per la cronaca, l'editore Pima non è che l'acrostico di "Per I Miei Amici". Il libro non ha trovato un editore ed è stato pubblicato a spese dell'autore, nonostante i suoi meriti (ma in futuro troverà ospitalità nelle edizioni di Leone Griffa).

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