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Inconsueta questa prova letteraria di Jean Portante proposta dalle edizioni "La Vita Felice": l'autore, nato nel 1950 in un villaggio minerario del Lussemburgo, figlio di emigranti italiani, e vissuto nella condizione sradicata e arricchente del trilinguismo, offre qui ai suoi lettori cinquanta prose poetiche, in uno stile pianamente narrativo che tuttavia vibra dei soprassalti emotivi e lirici della più pura poesia. In quasi ognuna di queste pagine ricorre la perifrasi "voglio dire", con l'intento dichiarato, ma poi non mantenuto, di esemplificare i concetti esposti, di spiegare e chiarire le immagini e le metafore. In realtà, dopo i due punti (che sono il segno di interpunzione più frequente), e dopo la ribadita volontà di dire, i sentieri polisemantici del discorso si infittiscono e accavallano, lo stile si fa più ansioso e quasi spaventato, nel tentativo di districare un pensiero sempre più intorbidito, confuso: "Voglio dire: quando la farina finisce non comincia necessariamente a mancare il pane dell'oscurità". Situazioni e azioni si presentano in una loro indifferente antinomia ("Potrei abbassare lo sguardo o sollevarlo"), in un relativismo ostentato e continuamente sottolineato da i "se", "forse", "chissà", "supponiamo". Perdura intorno, nelle cose e nelle parole, una sorta di mistero, di enigma che rende indecifrabile il procedere del tempo e dei gesti, sia di quelli quotidiani e minuti, sia di quelli ciclici e universali: e in continuazione il poeta passa dalla descrizione di fatti e sensazioni minime a meditazioni filosofiche più totalizzanti. La banalità di un movimento qualsiasi assurge allora al più inquietante interrogativo cosmico, espresso sempre con l'intelligente mimesi del parlato: con le sue esitazioni, le ripetizioni, le incongruenze, le associazioni inconsce che qua e là creano però nel lettore il sospetto di un eccesso quasi manieristico di bravura, di uno sfoggio non sempre necessario di originalità.
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