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Una storia che è insieme libro e dipinto: quello della triste vita di un autore dimenticato, in grado di dare al mondo tutto l'amore possibile sotto forma di parole, prima della sua prematura scomparsa.
«Dovette smettere di dipingere e iniziò a scrivere. Credo che questa sua dote visiva per l'arte lo rese un autore incredibile. I suoi libri erano molto visivi e dettagliati.» - Peter Cameron
Autore proibito negli anni cinquanta, assunto poi come ispiratore di tanta cultura letteraria omosessuale, Denton Welch è oggi, nei paesi anglofoni, un riferimento sicuro che va ben oltre la scelta di genere con i suoi connessi cascami di gusto e di stile. In Italia, purtroppo, i giornali hanno recentemente cominciato a parlare di lui denunciando uno scandalo. Lo scandalo non riguarda naturalmente il fatto che solo un editore come Casagrande ha avuto il coraggio di riproporre due suoi romanzi, ma piuttosto il fatto che qualche critico pellegrino avrebbe riscontrato delle congruenze, delle assonanze, tra questo Voce da una nube e Slow man, l'ultima fatica di J. M. Coetzee. E in tempi come i nostri, in cui è facile che i giudizi si estremizzino, rivelando poi la superficialità con cui sono costruiti, è inevitabile gridare al plagio: Coetzee non solo si sarebbe ispirato a Welch, ma lo avrebbe appunto plagiato. Ora, quel critico pellegrino, a dimostrazione della sua tesi pellegrina, chiede al lettore di leggere i due romanzi a confronto. Il dubbio e poi la certezza si faranno strada in lui, considerato l'incipit dei due romanzi (un grave incidente in bicicletta) e lo sviluppo del plot, le atmosfere, l'identità dei protagonisti (un fotografo e uno studioso di critica d'arte) eccetera eccetera.
C'è da rimanere di sale. Intanto perché l'escamotage dell'incidente è un diffusissimo stratagemma narrativo per inchiodare una vita, per permettere allo scrittore di interrogarla al di fuori della sua routine. E poi perché il Paul di Coetzee e il Maurice di Welch sono incomparabilmente diversi. Per età, per collocazione nel mondo, per sguardo sul mondo, per capacità di leggere il dolore, per estrazione, per cultura. A Coetzee interessa il movimento lento, che come in una sorta di disgelo ormonale, porta il vecchio Paul a vincere il pudore di un corpo obliterato non solo dal tempo ma anche dalla consuetudine all'isolamento; a Welch interessa la nuova stagione che si apre per il giovanissimo Maurice, governato solo da una zia, per sempre al muro a causa dalle conseguenze dell'incidente, all'interno di una struttura chiusa, claustrofobica, costretto alla convivenza coatta, al cambiamento dei propri riti igienici che gli impone l'ospedale. Voce da una nube, l'ideale antefatto a In gioventù il piacere, fu pubblicato postumo nel 1950 e racconta nel dettaglio il calvario cui si sottopose Welch stesso a diciott'anni dopo essere stato vittima di un gravissimo incidente automobilistico.
Prima ricoverato in ospedale per i primi soccorsi di tipo chirurgico, Maurice viene poi trasferito un una clinica privata nei dintorni di Londra per una sfiancante riabilitazione. Le visite rarefatte dei pochi amici, gli arrivi spettacolari della zia, il rapporto con il medico curante e quello con gli infermieri, i barellieri, il personale medico comprimario, la direttrice dell'ospedale e i molti pazienti (con i loro annessi familiari) sono la materia del libro. Che è come trasfigurata dalla pietà commista a fastidio, a insofferenza dermica nei commenti di Maurice. Che vede lo spreco di sangue e di muscoli e di gioventù in un giovane operato al cervello, o la brutalità di una giovane infermiera tutta protesa a svolgere il proprio dovere, o l'energia candida di una massaggiatrice di mezza età, o ancora la profondità umana del medico che infine lo prende in cura. Tutto dunque si trasforma in questo romanzo che potrebbe essere definito ospedaliero (un genere non ancora codificato dalla critica, ma che conta molti scrittori anche contemporanei, anche italiani). Accanto a queste figure del dolore, si muove una folla di personaggi che Maurice incontra nelle sue scorribande extra ospedaliere, quando ma sarà vero gli è concesso del tempo libero tra una sessione riabilitativa e l'altra. Sempre alla ricerca di altra umanità, ancor più derelitta, ancora più bugiarda e miserabile, Maurice accumula visioni. Che funzionano da svelamento o, meglio, da rivelazione di ciò che sta al di sotto del dolore, nascosto dalla malattia, come un fiorire funereo di una vita interna alla morte.
Con una lingua che stupisce per ricchezza, per capacità inventiva, per coloritura, Denton Welch non termina il suo romanzo. Solo lo lascia finire, come avesse esaurito la possibilità di andare oltre, con una specie di contemplazione di quanto irrimediabile e affascinante sia la logora finitezza del destino umano. "Niente era reale, solo la tristezza della distruzione, e io volevo affondarvi, esserne vittima, addormentarmi in essa (
) Era simile all'attimo che precede il pianto di un bambino: sa che sta per piangere e non reagisce, non prova vergogna, vuole sprofondare, venire risucchiato per sempre nella sua infelicità". Quanto siamo lontani insomma dalla causticità surreale di Coetzee che, davvero, poteva essere lasciato in pace. E poi l'ispirazione è un venticello lieve che può andare a infilarsi nei posti più strani. A Denton Welch l'augurio che entri a far parte, anche nel nostro paese, della grande letteratura senza bisogno di scomodare i premi Nobel.
Camilla Valletti
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