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"Rotti come frammenti / di una stella fuggitiva, / viviamo. / I nostri pezzi / restano alla curva del sogno". Qualcuno un giorno si fermerà - sia pure per sbaglio - in qualche angolo strambo di qualche biblioteca alla periferia del vento, siederà sui suoi scalini smangiucchiati, aprirà questo libretto e inizierà pian piano a capire un popolo estenuato, vedrà mestoli di terra cadere nella gola di chi tenta un grido, toccherà i punti esatti in cui duole la vita: "Ci dovrebbero essere feste per piangere / fino a formare un gemito solo / che un pò ci allontanasse / da questa angoscia. / La gente / quella che sorride sempre / non salva nessuno / nè si salva". Ma il senso più bello lo inventa nella presentazione il curatore quando scrive che ha lavorato "rispettando il ritmo poetidiano, il poesibile che sa l'impoesibile, e non si facilita certo la vita, scivendosela". Un Messico del poco, del pane strappato a lotte, della preghiera d'aver il mare per regalo, ecco l'intensità visionaria di questa donna che nessuno conosce e che qui mezza leva d'inchiostro tenta di elevare al sole che merita, lei e il suo cognome quasi di condanna, mentre dal sogno del suo canto la parola ha saputo alzarsi come ferita che non si vergogna, come labbra seccate dalla fatica, come cinghiate sull'anima. Al punto da frugare fra pieghe di consolazione scrivendo: "Mi addormento con il piccolo lapis / nella mano. / Mi sarà pagina il cuscino? / Dormendo potrò scrivere il mio sogno?". Si dunque che restino aperti, sia che se ne volino nell'indistinto dell'altrove del dormiente, la domanda resta aperta e trafitta, sbandata e brulla, inafferrabile. Se mi trema un occhio fra tavole di mercatini o qualche insetto stanco vi supplica due gocce sui tornanti dell'arsura, pensate a quest libro, a questa donna. Chissà che il male del mondo, nell'umiltà della poesia, non sappia scendere dai suoi scadenti trapezi e farsi carezza di vicinanza autentica, preziosità dissetante, caldo chiarore di verità.
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