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Anno edizione: 2020
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Strano libro, questo di Ernesto Franco che,a suo tempo, vinse il Premio Viareggio. Il linguaggio, a tratti, è incomprensibile, quasi criptico. Allora uno si rivolge al risvolto di copertina, sperando di cogliere lumi sul significato del tutto. Ma anche lì non c'è da trovar conforto. Solo la seconda parte del libro diventa comprensibile, quando, come in un'armata Brancaleone, i titolari di ferramenta di mezza Europa si mettono in marcia per allestire in Africa, in Etiopia, una grande fiera campionaria del settore. Fiera che finirà in una grande catastrofe causata da un'alluvione. Il libro, comunque, nonostante l'incomprensibilità cui ho fatto cenno, riceve il mio giudizio positivo per il bel linguaggio, anche tecnico, con cui è scritto.
Recensioni
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Dopo essere andate molto bene in poesia, le cose migliorano per Genova ora anche nella narrativa. Qualche mese fa Maurizio Maggiani (La regina disadorna, Feltrinelli, 1998; cfr. "L’Indice", 1998, n. 10) e adesso Ernesto Franco eleggono la città dei grandi poeti del Novecento a scenario di complesse trame romanzesche. Franco vi ambienta l’epopea della tecnologia bassa (ferramenta, attrezzi di lavoro) che ha costruito il XX secolo, frutto di uomini "esatti e violenti". Il protagonista è Gio Magnasco, inventore e commerciante, genio della pratica, fabbro amoroso e industrioso di ciò che unisce e costruisce: prima di tutto i chiodi, le viti, i nodi, i bottoni, e poi quello che grazie a essi sta insieme: navi, binari, gomene, corsetti. Dietro le ferramenta e l’utensileria, si affacciano la filosofia di una generazione che crede (si illude) nel progresso, e l’inquietudine di un personaggio taciturno, ammaliato dalle "cose invisibili che legano un uomo all’altro" non meno che dai bottoni e dagli elastici che allacciano gli elaborati vestiti di una donna inarrivabile di primo Novecento. La vittoria (come si vedrà: apparente) degli oggetti, degli strumenti, si traduce nel libro di Franco in omerici cataloghi in cui cose e nomi compongono un moderno epos in cui l’utile ha sostituito il bello, la praticità l’ornamento. Solo Daniele Del Giudice aveva tentato e realizzato un simile slittamento dalla prosa alla poesia epica nello splendido inventario dei pezzi dell’aereo in un racconto di Staccando l’ombra da terra (Einaudi, 1994; cfr. "L’Indice", 1995, n. 4). È una corrosione intelligente e sottile del vecchio monumento-romanzo, non a caso opera qui di un fine esperto di letteratura sudamericana, la cui impronta traspare da più parti: dalla disposizione dei tempi narrativi, col gioco (alla Marquez) di una narrazione al passato che a tratti si sposta nel futuro anticipando gli esiti finali del racconto ("Non posso dirlo e basta, aveva detto Gio Magnasco, prima degli anni in cui poi tacque per sempre"), dalla predilezione (borgesiana) per certi aggettivi come "probabile", "improbabile", "complicato", dal gusto dell’iperbole (i numeri precisi e inverosimili). Vite senza fine (doppio già dal titolo) celebra e congeda il secolo della tecnica, delle industrie, delle grandi infrastrutture: cantieri navali e ferrovie sono i luoghi di lavoro di Gio Magnasco prima di darsi al commercio nella "città ricurva", l’innominata e riconoscibilissima Genova, dove apre un grande negozio di ferramenta e mercerie. Le navi, i treni, gli utensili sono il segno tangibile del progresso, del sogno di un mondo efficiente, produttivo, generoso e ardito nelle opere dell’uomo. Ma il suo eroe, Gio Magnasco, ne conoscerà l’illusorietà, la fragilità, la deperibilità. Nel romanzo, con una grande trovata narrativa, tutta la migliore ferramenta d’Europa corre a una fantasmagorica esposizione dei suoi prodotti in Africa, allestendo sull’altopiano etiopico una sterminata fiera della tecnologia applicata. E, in effetti, i prodotti delle migliori marche di chiodi, serrature, vernici, bottoni, nastri, nodi ecc. vanno a ruba tra la folla degli indigeni visitatori. Ma... le viti diventano orecchini, le serrature ciondoli, le rondelle braccialetti, i cacciavite fermagli per capelli femminili, mentre i bottoni fanno fiera mostra sui petti di corpulenti guerrieri. È il segnale della fine. Magnasco vede, con limpida intuizione, che "i selvaggi" si comportano con le meraviglie della tecnica "nello stesso modo in cui fra qualche centinaio d’anni si comporteranno i curiosi o gli archeologi" con i nostri oggetti, "trattandoli come monili o reperti da mostrare nei musei ai viaggiatori e ai bambini delle scuole". Non, dunque, i fabbricanti europei del XX secolo, ma gli spensierati etiopi sono il futuro, intuisce, prima di sprofondare nel silenzio di un’interminabile paralisi, Gio Magnasco. E allora è giusto che questo mondo di ferro, apparentemente avvitato e annodato a regola d’arte, si inchiodi inerte a una sedia a rotelle, si sfilacci e scivoli nel fango di un grandioso temporale africano e affondi nel naufragio del più bello e costoso dei gioielli prodotti da quella laboriosa imprenditoria che aveva creduto di migliorare la vita stringendola nelle sue viti senza fine.
recensioni di Coletti, V. L'Indice del 1999, n. 09
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