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Il contributo che la storiografia italiana ha dato alla collocazione internazionale dell'economia fascista è trascurabile se paragonato alla mole di studi dedicati alla strutturazione interna del regime e all'organizzazione che esso diede al consenso. I temi su cui gli studi si sono più concentrati ruotano intorno alla dimensione nazionale del fenomeno interrogandone instauratio e renovatio di forme politiche e ideologiche, mentre sono stati riservati spazi modesti alle trasformazioni strutturali e ai mutamenti di equilibri tra gruppi economici dominanti. Tale tendenza deriva probabilmente dal retaggio secondo il quale l'organizzazione economica del regime innovò solo in parte l'architettura economica liberale. Un discorso analogo è possibile svolgere per la politica estera del fascismo, sulla quale una sintesi complessiva manca da quarant'anni: i pochi studi recenti hanno indugiato più su nodi diplomatici che sui vincoli esterni allo sviluppo, in un'epoca in cui la contrazione del mercato internazionale dei capitali ridisegnò lo spazio d'azione italiano. Da ciò scaturisce un dibattito poco incline a inserirsi con larghezza di orizzonti nella storiografia internazionale sugli anni venti e trenta. Non mancano, naturalmente, le eccezioni, ma il lavoro da fare appare tutt'altro che trascurabile. Anche per ciò l'uscita di due biografie di altrettante personalità dell'establishment economico nazionale che ebbero con il fascismo una rapporto intenso può contribuire a leggere con equilibrio l'azione del mondo industriale durante il regime, che dagli studi pioneristici di Piero Melograni e Giorgio Mori ha percorso non troppi passi avanti.
Il volume dedicato da Nicola Tranfaglia a Pirelli riassume anni di ricerche su uno dei più influenti industriali dell'Italia postunitaria. Il libro traccia un bilancio della parabola biografica di Pirelli: la formazione; gli incarichi nell'impresa di famiglia; la costruzione della personalità pubblica; l'avvicinamento al fascismo, che, secondo l'autore, non comportò un'identificazione (si era iscritto, come molti esponenti del big business, al Pnf nel 1932); la rimozione dalla carica di amministratore delegato del suo gruppo nel 1945; l'epurazione, e gli ultimi difficili anni. Il fuoco è dunque più sulla vita dell'industriale che sul periodo che lo vide interprete della diplomazia economica fascista. Eppure le riflessioni di Tranfaglia suggeriscono, grazie a un'indagine centrata sull'archivio Pirelli, una serie di considerazioni riguardo al cruciale problema della crescente interdipendenza dell'Italia, e della sua classe dirigente, con l'economia internazionale e con le potenze che la guidavano nel periodo compreso fra il decollo industriale e le due guerre. L'autore indica con chiarezza sia l'importanza avuta ai fini del decollo dalla creazione di nuovi settori ad alto contenuto tecnologico (è il caso della gomma e dei cavi elettrici sottomarini, core business Pirelli), sia la spinta a una maggiore libertà delle decisioni imprenditoriali rispetto all'estero, sia, infine, la prospettiva di una relativa emancipazione energetica dalle fonti straniere che veniva allora schiusa all'Italia dall'industria elettrica.
Nel costruire la sua sintesi Tranfaglia preferisce una narrazione piana, confidando che la buona leggibilità dell'opera favorisca l'intelligibilità dei nessi causali e dell'ambiente in cui essi si inserivano. Così, nel tratteggiare la storia dell'impresa, del resto nota nella sua fenomenologia, solo in parte sono identificate le caratteristiche monopolistiche di un gruppo che affrontò da posizioni di forza il rapporto con il potere politico. Lo stesso potere politico erogatore di favori che consentirà, tra il 1924 e la fine degli anni trenta, l'espansione dei gruppi guidati da Cini, Gaggia, Volpi, Motta. All'impegno diplomatico di Pirelli, dal 1916 in poi, l'autore dedica pagine nelle quali analizza il debutto internazionale alla Conferenza di Versailles (vi partecipò come esperto nella commissione guidata da Ettore Conti), mettendo in evidenza come tale incarico non giunse quale riconoscimento, ma come avvio di un'attività che lo vedrà protagonista delle conferenze economiche internazionali del ventennio.
Si tratta di fatti parzialmente descritti nei Taccuini 1922/1943 di Pirelli (editi nel 1984 dal Mulino con la cura di Donato Barbone), ma il lavoro di Tranfaglia restituisce organicità agli eventi e colloca i passaggi fondamentali attraverso cui si costruì il credito del finanziere milanese. Appare, semmai, sottovalutato il ruolo che giocò il regime nell'accreditamento di Pirelli come negoziatore internazionale. È certamente vero, e il libro lo dimostra, che egli avesse già nel 1919 un'eccellente reputazione internazionale, tuttavia il suo coinvolgimento nella rete di relazioni dell'Italia fascista avvenne per tappe successive di sempre maggior rilievo, di pari passo con il radicarsi del regime. I compiti che gli furono affidati dal 1924 in poi, infatti, non hanno eguale con quelli precedenti: la partecipazione alla commissione Dawes, al cui successo si deve la soluzione provvisoria della questione dei debiti interalleati, fu per Pirelli il momento della consacrazione, oltre che dell'ingresso in una community of power internazionale. A conferma della crescita del suo status, l'anno successivo partecipa, con Dino Grandi, Mario Alberti (Credito Italiano), Giovanni Fummi (J. P. Morgan, e dal 1949 uomo Pirelli nel consiglio d'amministrazione di Mediobanca) e Corrado Gini, alla delegazione guidata da Giuseppe Volpi e Alberto Beneduce, che negozierà con un consorzio di banche americane un prestito obbligazionario da 100 milioni di dollari: il più consistente concesso quell'anno sulla piazza di New York, il primo di una serie che, fino al 1929, immise oltre 300 milioni di dollari nell'economia italiana.
Le vicende di cui Pirelli fu protagonista in questo periodo sono di singolare rilievo e si legano alla costruzione di una Informal Entente transatlantica che schiuse la strada alla penetrazione americana sui mercati europei, volta a superare, attraverso la finanza, i vincoli dell'isolazionismo delle amministrazioni repubblicane succedute a Wilson. Sono questioni in parte introiettate dalla storiografia, ma che nel volume trovano uno spazio contenuto, con alcune non marginali omissioni bibliografiche. Allo stesso modo le righe dedicate a Pirelli quale innovatore del commercio estero, paiono sottovalutare il suo lavoro come primo presidente dell'Istituto nazionale per le esportazioni. Infine, un cenno alla Conferenza di Londra del luglio 1933, importante spartiacque del decennio, sarebbe forse stato opportuno.
A essa dedicava invece ampio spazio il lavoro di Nicola De Ianni dedicato a Guido Jung (Il ministro soldato. Vita di Guido Jung, Rubbettino, 2009). Le tangenze delle due vicende biografiche sono numerose, dalla comune partecipazione alla Conferenza di Versailles all'avvicendamento alla presidenza dell'Ince, sebbene l'estrazione e l'universo di riferimento dei due fosse sensibilmente distante: esponente della grande finanza l'uno, piccolo imprenditore nel campo dei generi alimentari siciliani l'altro. A differenza di Pirelli, Jung nazionalista, interventista e militare fu fascista e deputato dal 1924 e strinse con Mussolini un rapporto di stima che lo portò, prima di succedere nella carica, a una stretta collaborazione con i ministri delle Finanze Volpi e Mosconi. L'impegno diplomatico di Jung si dispiegherà soprattutto in seguito al crollo del 1929, quando le conseguenze della crisi faranno vacillare i maggiori istituti di credito nazionali. Fra il luglio del 1932 (quando assunse la guida delle Finanze) e il gennaio del 1935, Jung fu promotore di una politica di rigore estremo e pose le premesse per la soluzione del problema bancario e industriale aperto dalla crisi. In quel quadro si colloca la sua collaborazione con Beneduce e Donato Menichella per la costituzione dell'Iri, attraverso il quale le partecipazioni delle banche miste acquisite trasformeranno lo stato nel maggior detentore di proprietà industriali in Europa.
Lo spazio riservato da entrambi i lavori al periodo compreso fra la guerra d'Abissinia e il crollo del regime rende evidente quanto due uomini che ebbero fiducia nel fascismo, e nella sua capacità di innovare, si distanziarono progressivamente dalla strada imboccata dal regime in seguito al crollo del sistema di interdipendenza monetaria e commerciale guidato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, di cui l'Italia era stata integralmente partecipe, e che entrambi avevano contribuito a restaurare. Il conseguente rapporto di dipendenza economica dalla Germania hitleriana vide Pirelli e Jung (quest'ultimo allontanato dalla vita pubblica in seguito all'approvazione delle leggi razziali) sempre meno organici al regime, sino al definitivo distacco consumato prima dell'occupazione da parte degli Alleati.
Mauro Campus
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