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Bellissimo il titolo scelto per questo importante assaggio di lettere scritte da Clarice Lispector a diversi corrispondenti, anche perché la formula, prelevata da una lettera del 1941, si estende molto al di là della contingenza, andando a evocare, come osserva Lisa Ginzburg nelle pagine introduttive, l'esistenza nomade della scrittrice e anche, aggiungerei, le varie declinazioni della vita esplorate dalla sua scrittura: qualcosa che non si ferma, che va oltre le identità, in continuo passaggio e trasformazione, la "vita infinita" (Cavarero), "la vita che non siamo noi" (Farnetti). Vita è forse la parola che più spesso ricorre nei testi di Clarice, e il suo stesso nome ucraino, Haia, pare significhi "vita".
Durante i due decenni di cui queste lettere forniscono soprattutto testimonianza, gli anni quaranta e cinquanta, anche Clarice non si ferma. Sposata con un giovane diplomatico, Maury Gurgel Valente, dal 1943, poi madre di due figli, segue il marito nei diversi spostamenti per poi tornare definitivamente a Rio nel 1959 dopo la separazione. Ricordiamo che già la sua nascita, nel 1920, era avvenuta per caso a Čečel'nyk, in Ucraina, durante l'esodo dei genitori, una coppia di ebrei russi diretti in America. All'arrivo in Brasile, Clarice ha due mesi, le sorelle Elisa e Tania, più tardi destinatarie di vivacissime lettere, sono di otto e cinque anni più grandi. Clarice ottiene la cittadinanza brasiliana nel 1943, quando, terminati gli studi di giurisprudenza, lavora come giornalista, e sta per pubblicare il primo romanzo. Due lettere scritte l'anno prima al presidente Gétulio Vargas per ottenere la naturalizzazione, molto abilmente costruite, non nascondono un certo, anche ironico, risentimento, e accenti di appassionata verità. "Chi le scrive è una giornalista (
) e casualmente anche russa. Una russa di 21 anni e che vive in Brasile da 21 anni meno pochi mesi. Che non conosce una sola parola di russo, ma che pensa, parla, scrive e agisce in portoghese, facendone la sua professione e investendovi tutti i progetti per il suo futuro, vicino o lontano". Ma subito dopo, come si diceva, Clarice abbandona la patria brasiliana. Le sue lettere, in partenza da Napoli, da Berna, da Washington, saranno gli unici fili con cui tessere da lontano le relazioni familiari e di amicizia.
La traduzione italiana attinge al più ampio volume intitolato Correspondências. Credo si tratti dell'edizione Rocco, Rio de Janeiro 2002, a cura di Teresa Montero, che nel 2007 ha poi curato una raccolta di lettere di Clarice alle sorelle, Minhas queridas. Bisogna sapere che le vicissitudini delle lettere di questi fogli (spesso copie di fogli) che sopravvivono a chi li ha ricoperti di scrittura, e che rimangono silenziosi per anni, e infine riescono talvolta a vedere la luce e trovare nei lettori dei nuovi destinatari stanno molto a cuore a coloro che prediligono il genere epistolare e che con una certa trepidazione vi si accostano. Trepidazione assai giustificata nel caso di Lispector, scrittrice di culto mondiale, ampiamente conosciuta in Italia a partire dal 1981 grazie ad Adelina Aletti e a Rita Desti, prime traduttrici, ad Angelo Morino e alle edizioni La Rosa. Di fronte all'intensità della voce di una scrittrice che non si è mai esposta autobiograficamente nei suoi testi, è cresciuta nel tempo la curiosità di saperne di più, della sua vita, dei suoi affetti, delle sue letture, delle sue relazioni. Qualche anno fa la pubblicazione degli articoli scritti settimanalmente per il "Jornal do Brasil", La scoperta del mondo 1967-1973 (trad. di Mauro Raggini, La Tartaruga, 2001), ci aveva fornito materiali preziosi, con cinquecento pagine di riflessioni personali sui più diversi argomenti, pagine già piuttosto confidenziali con cui le lettere private mostrano una certa affinità di tono, fatta salva la differenza sostanziale che passa tra il rivolgersi a un pubblico di lettori senza volto oppure a un destinatario unico, familiare, prediletto.
Edda Melon
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