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A pagina 139 di questa vita ben consumata l'autore racconta un colloquio con Gian Carlo Pajetta. Ferretti voleva lasciare l'Unità e Pajetta cercava di dissuaderlo. Non riuscendo a convincerlo delle proprie ragioni, Ferretti trova questo argomento risolutivo. "Forzando i termini di un problema complesso come la necessaria verifica di certe categorie istituzionalizzate e acquisite, e di un rapporto spesso equivoco tra contenuti e forme, gli dissi tutto d'un fiato: 'Ma io sono ormai convinto che una vera letteratura antifascista non sia mai esistita." Il libro è scritto tutto così, con questo stile da memoriale giudiziario o da curriculum accademico. Del resto è uno stile adeguato al contenuto: beghe fra docenti, screzi con colleghi, piccolezze. L'unica scena vera e simpatica è quando l'autore giovanetto, in vacanza a Viareggio con amici operai, guarda con invidia e ammirazione due di questi amici che corrono con una ragazza verso una sala da ballo, pieni di gioia di vivere. Mi è tornata alla mente una scena ricordata da Massimo Mila in Scritti Civili. Dopo l'8 settembre del '43, lui e la moglie scappavano da Torino verso la montagna in bicicletta, carichi di due enormi sacchi. Furono sopravanzati da una motocicletta velocissima. "La montavano due giovanotti dall'aria energica e arguta, verosimilmente operai, e non portavano carichi di masserizie, sacchi di viveri, o altri bagagli ispirati a senso di prudenza: semplicemente avevano in spalla un moschetto". Che gli intellettuali di una volta fossero sensibili al fascino degli operai significava che sia gli uni che gli altri erano migliori di quanto non siano oggi.
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