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Virgilio - Károly Kerényi - copertina
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Virgilio - Károly Kerényi - copertina
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Descrizione


"Presentare Virgilio al lettore moderno, conquistargli un pubblico, non è compito facile. Ma a cosa servono mai i poeti, se i loro testi non vengono letti? Solo a leggere testi su di loro? In tal caso essi son persi. I poeti antichi non hanno bisogno tanto di una introduzione, quanto, piuttosto, d'una guida: di un'istruzione per l'uso, che richiami l'attenzione su quanto di insostituibile ci è rimasto di loro. Non esiste altro poeta romano che si sia tanto avvicinato alla poesia pura quanto Virgilio, e ciò in virtù d'una religio nel senso originario, romano, del termine."
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Dettagli

2007
22 febbraio 2007
98 p., Brossura
9788838921919

Voce della critica

Nella fortunata serie "Il divano" Sellerio pubblica, a cura di Luciano Canfora e tre diversi traduttori, due brevi scritti virgiliani di Karl Kerényi (1897-1973). Desta una certa curiosità il nome del grande storico delle religioni – noto soprattutto per il carteggio sul mito con Thomas Mann, tradotto nel 1963 dal Saggiatore – accostato a un problema squisitamente storico-letterario. I due scritti, riprodotti in sequenza anticronologica, risalgono rispettivamente al 1929 e al 1970. Entrambi si propongono di presentare Virgilio a dei lettori generici: il più datato, originariamente composto in ungherese, era la premessa a una non meglio identificata "antologia virgiliana" (Bibliotheca discipulorum), sulla quale le informazioni editoriali non aiutano a orientarsi molto. L'altro viene da una rara enciclopedia in settanta volumi, dedicata alle grandi personalità della storia del mondo divise per epoche e per nazioni, edita a Zurigo e poi a Francoforte, nel 1983. Di più non c'è dato sapere: e va lamentata un poco la laconicità delle notizie offerte.
Il saggio introduttivo di Canfora, d'altra parte, cerca piuttosto di evidenziare l'interesse dei due scritti, la loro attualità, le differenze che corrono dal primo al secondo. Canfora ha buon gioco nel ricondurre il più antico al clima di esaltazione della romanità – o, meglio, di una falsa idea di romanità e una falsa idea di Virgilio, quindi, visto come suo cantore precipuo – che imperversò nel ventennio fascista, raggiungendo il culmine un anno dopo lo scritto di Kerényi nelle celebrazioni per il bimillenario della nascita del poeta. Kerényi, fra l'altro, negli anni trenta ebbe diversi contatti con la cultura ufficiale del regime, tutti puntualmente ricostruiti nell'introduzione, anche se non è ben chiaro, né Canfora fornisce dati in proposito, se si debba pensare a una sua più o meno convinta adesione a certi miti e a certe ideologie, o se si sia trattato solamente di un tentativo male indirizzato di legare l'Ungheria di Miklós Horthy, come dirà anni dopo lo stesso Kerényi per tutt'altra avventura umana e intellettuale, "alle potenze occidentali", di svecchiarne cioè la cultura facendola uscire dal suo isolamento.
In ogni caso, lo scritto preludeva a un'antologia, s'è detto: e sarebbe interessante sapere quali fossero i passi virgiliani analizzati, quale lo stile del commento, le fonti messe a frutto, il taglio conferito ai singoli episodi. Così come si presenta oggi, quello che conta di un simile testo – Canfora lo dice bene – è l'intuizione dello studioso ungherese circa un nesso assai stretto, voluto dalla propaganda augustea, ma al quale Virgilio si adeguò con convinzione, fra politica imperiale, coscienza di una rappresentazione di sé e di Roma profondamente cercata da Augusto, centralità della religione come instrumentum regni. Nell'esaltazione del sacro, dell'intreccio fra "rito" e "stato", o meglio, fra "rito" e "sopravvivenza della comunità", Kerényi individua un elemento capitale della politica augustea e del sentire di Virgilio. Meno pertiene al discorso la constatazione, in sé indiscutibile, che l'uso dell'Eneide che si proponeva Augusto trovasse conforto in una politica culturale alla quale il fascismo ridiede forma e attualità: Kerényi, quando scriveva, scriveva per un pubblico ungherese e non pensava all'Italia; le sue pagine risentono del clima di un'epoca, non della mistica fascista; i contatti con il regime sono tutti risalenti agli anni trenta, dopo l'acquisizione di una cattedra a Pécs. È proprio come testimonianza di un'epoca, e non di un gusto specifico, che è perciò importante, per non dire inquietante, ritrovare nelle parole di Kerényi facili concessioni a un vocabolario di moda ("razza latina", "gloriosi destini della gente Giulia", "dominio eterno del mondo da parte di Roma"); né si può dire che lo studioso si sia interrogato davvero sui limiti e sui modi dell'adeguarsi virgiliani a questi temi.
In ogni caso, le parti condizionate dalla cultura di fine anni venti scompaiono pressoché tutte nello scritto del 1970, sul quale Canfora è più reticente. L'introduzione si limita a segnalarlo per il rilievo concesso al "primato dell'elemento religioso per la comprensione dell'Eneide". Giusto. Lo scopo contenutistico del poema è ora ravvisato nel "racconto della liberazione dei futuri luoghi sacri di Roma da parte del troiano Enea". Ma liberazione da cosa? Da chi? Il discorso si fa incerto. Meglio notare, nel saggio, una certa indipendenza dalle biografie allora in voga (era di pochi anni prima, ad esempio, la grande voce enciclopedica curata da Karl Büchner, tradotta in italiano da Paideia nel 1963); una spiccata tendenza a fare largo uso delle vite virgiliane antiche e delle opere minori del poeta, la cosiddetta Appendix Vergiliana; la definizione di Virgilio come "primo poeta italiano", con aggettivo implicitamente contrapposto a "italico" ("astuto italico" è ad esempio, e non si capisce bene il perché, il maestro di retorica del poeta mantovano, Epidio); il prevalere di musica e sonorità rispetto al contenuto nella definizione che Kerényi dà della poesia virgiliana e di quella italiana in genere.
C'è del buono, in questo, ma c'è qualcosa di sospetto: Virgilio è per Kerényi un adepto della "poesia pura", della "poesia per la poesia", altra cosa dall'art pour l'art di Catullo e dei neoterici, perché la sola capace di attingere una non meglio definita "verità". D'altro canto, la poesia virgiliana è esaltata per un'"attenzione rispettosa" da parte dell'autore e, per conseguenza, del lettore; attenzione che sarebbe la traduzione del latino religio e che guarderebbe all'essere umano e alla sua lingua, ma che ai tempi delle Bucoliche è ancora "rappresentazione del mondo attraverso il suono e null'altro" (corsivo d'autore) – affermazione tutta da verificare, sebbene in riga con una lettura oggi datata dell'opera giovanile di Virgilio; ma che poi, con le Georgiche e l'Eneide – l'oscillazione fra i due titoli è significativa – sarebbe riuscita a trasformare la musicalità virgiliana in strumento di più ampio respiro, per un'opera dal contenuto reale, una convincente visione del mondo.
Alle spalle del ragionamento si riconosce il magistero di Viktor Pöschl, citato per le sue affermazioni circa simbolismo e musicalità del verso virgiliano, coniugate con alcuni aneddoti antichi su Virgilio (il poeta recitava con insuperabile eleganza i suoi versi, ai quali sapeva comunicare una forza di cui erano altrimenti privi; le egloghe furono rappresentate con successo a teatro) e una dichiarata simpatia per il Walter Pater del saggio su Giorgione. Eppure, proprio nella reazione all'opera di Pöschl si riconosce l'originalità di Kerényi. Per il quale, fra le egloghe, conta essenzialmente la quarta, adattamento alla lingua di Roma di teorie orientali (l'idea in sé non era nuova), per quanto queste non si fondassero, in Virgilio, su nessun calcolo politico – e avere voluto appiattire l'opera sulla figura di Ottaviano è prova della "faziosità" dei filologi, responsabili di un "insulto alla poesia" e di una "infruttuosa discussione senza fine".
Quanto alle Georgiche, Kerényi le percepisce come un grande oratorio musicale, un inno all'Italia alla vigilia di una guerra che la vedrà contrapposta all'Oriente di Antonio e Cleopatra, scevre perciò di fini pratici, non di quelli culturali; meno chiaro è invece che cosa significhi per Kerényi la contrapposizione, derivante da Pöschl ma qui solo accennata, fra "letterarietà" e una "sensualità che ingloba la letterarietà", quest'ultima propria di Virgilio. Per l'Eneide, infine, una volta superata la definizione contenutistica di cui s'è detto, lo studioso torna a confrontarsi con Pöschl e con Pater, esaltando di nuovo la musicalità e, dunque, la lingua di Virgilio. Non simboli vanno però ricercati nel poema, ma motivi musicali. Il che prelude alle pagine forse più illuminanti dell'intero volume, quelle incentrate sulla lingua del poeta mantovano, che crea la realtà che il narratore descrive: per cui noi vediamo Enea che si carica della fama e dei fati dei suoi discendenti – in realtà, dello scudo su cui sono cesellati avvenimenti capitali della storia futura di Roma; oppure l'eroe e la Sibilla che si avventurano oscuri in una notte solitaria, anche se sarà vero semmai l'incontrario; e Laocoonte paragonato a un toro sacrificato solo per metà, quel toro che, nella verità dei fatti, lui stesso stava sacrificando e che aveva lasciato agonizzante, una volta assalito dai serpenti.
"La barriera tra quel che è al di qua e quel che è al di là della lingua – scrive Kerényi – è caduta: l'avvenimento nella similitudine e quello nella realtà si equivalgono; solo che la lingua, a cui la similitudine appartiene, è più sublime e più completa della realtà". Una bella definizione della poesia virgiliana, alla quale si accompagna, senza essere sviluppata, quella di un poeta che si riflette in Enea, come lui eroe passivo, trascinato dai fatti, spettatore di qualcosa che vede realizzarsi sotto i propri occhi, senza potervi davvero intervenire (il farsi di Roma per l'uno, il ri-farsi della Roma augustea per l'altro).   Massimo Gioseffi

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Károly Kerényi

1897

ungherese di nascita, è stato uno tra i più illustri interpreti del pensiero mitologico e filosofico antico, e tra i più auterovili storici delle religioni classiche. Tra le sue opere ricordiamo, pubblicate da Bollati Boringhieri: Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (2012) con C. G. Jung, Figli del sole (2014) e Nel labirinto (2016).

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