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recensione di Nadotti, A., L'Indice 1994, n.11
Vincoli segreti, segretissimi, quasi indicibili quelli che Grazia Livi disegna parola dopo parola, fino a renderli visibili, nei racconti del suo ultimo libro. Vincoli tra una donna e un uomo di volta in volta figlio, marito, amante, ombra di un padre, sempre in qualche misura remoto, già perduto al di là delle apparenze ed eventuali apparizioni. Vivo piuttosto nella dimensione del sogno. Non bastano famiglia, occupazioni, luoghi e figli, n‚ bastano i ripari rassicuranti che la modernità offre ad alcune "donne di tenuta", emancipate e in carriera: la cavità protettiva di aerei su cui si sale con quotidiana disinvoltura, il tepore consolatorio di uffici arredati con sobria eleganza, di abiti scelti sapientemente e abitudini immateriali acquisite nel tempo per difendersi. Spesso sollecitato da interferenze banali, si allunga anche su isole esistenziali ritagliate con cura "un sogno più oscuro e tentante: essere in due... Formare, con parole elusive, con umori variabili, una fusione dolce, totale". Un sogno di resa dentro una casa non tutta per sé, che incrina il successo e momentaneamente annebbia il senso di una vita costruita seguendo un progetto.
Per denudare quel sogno, ormai "persuasa che l'oggettività fosse a portata di mano", Grazia Livi ha scelto di raccontarlo. Di insinuarsi in esso con la sua scrittura nitida e ricercata (che già conoscevamo dai libri precedenti, "Da una stanza all'altra", Garzanti, 1984, e "Le lettere del mio nome", La Tartaruga, 1991), e renderne riconoscibili le molteplici maschere. Ultimo schermo non a se stessa, ma a tutte le produttrici del sogno, la narrazione in terza persona. Così si susseguono, come in un catalogo d'autore, diciotto ritratti d'uomo, "qualcuno di molto prezioso, instabile, elusivo, qualcuno che si reputava libero, che creava distanze, che non voleva concedersi", "Un figlio spiato", "Un giovane dio", "Un lontano", "Un padre di carta", "Un assente" "Un perduto", "Un fuggitivo", "Un uomo di scienza"... E su ognuno di loro si concentra lo sguardo di una donna che, narrando il sogno che lei stessa ha alimentato, si rivela e svela il corpo altrui in cui è inscritto il proprio desiderio: una moglie che "vaga tra le porte non sapendo dove mettersi a recitare la sua parte"; donne indipendenti e sole che hanno tradotto in dover essere e autorevolezza un bisogno insoddisfatto di riconoscimento amoroso, madri che aspettano scrutando quanto e cosa, di se, resti nel figlio, e a lei di lui. Gli uomini spariscono e si riaffacciano improvvisamente alla memoria, o rispuntano in carne e ossa su una scena impreparata ad accoglierli, così da rendere necessario, anche a distanza d'anni un bicchiere d'acqua, talvolta perfino un sonnifero, "per mandar giù quel groppo che non c'entrava più nulla con la sua vita. Apparteneva a un'altra persona - un'altra molto lontana e fragile - che tuttavia non era morta ancora".
Tra tanti sbadati equilibristi, solo "Un complice", nel bellissimo racconto presumibilmente autobiografico in cui Grazia Livi ricostruisce l'incontro con Arthur Rubinstein di una giovane giornalista. Con bonaria seduttività il vecchio artista conclude il colloquio sussurrandole, "si faccia amare dalla vita, 'querida'! Non si sottragga!... La vita è buona con chi l'ama, lo sa?" A distanza di anni, nel giorno della morte del pianista quasi centenario, la donna si chiede se e quanto abbia fatto tesoro di quell'antica raccomandazione. Non sa, o piuttosto no, non ha azzardato la sintesi che essa richiedeva. Mentre forse quelle parole meriterebbero un tardivo riconoscimento, un "Ben detto, vecchio mio, ben detto!", coerente con l'intento che Grazia Livi dichiara fin dall'epigrafe messa in calce a questi racconti belli, tesi, necessariamente impietosi, "Che lontananza, nei secoli, misurabile in parole morte! Oggi non l'accettava più. Mise da parte il lutto e si dispose a parlare".
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