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Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2014
Anno edizione: 1996
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Ci sono libri che non donano luce, la cui cupa narrazione è pregna di negrezza e livore: “i Viceré” di de Roberto rientra tra questi. Chi cerca bellezza, gioia e speranza, chi agogna qualcosa di edificante e ricco di buoni sentimenti è meglio che non si cimenti nella sua lettura. Per comprendere un’opera letteraria bisogna cercare di comprendere le idee dell’autore, il suo retroterra culturale ed il clima politico-sociale in cui è stata scritta. Questo libro è stato pubblicato nel 1894, un anno prima c’era stata la liquidazione della Banca Romana e la nascita della Banca d’Italia; erano scoppiate le manifestazioni dei Fasci Siciliani dei lavoratori, Giolitti si era dimesso e Crispi proclamava lo stato d’assedio mandando l’esercito in Sicilia a sedare i moti. De Roberto (1861-1927) viene spesso definito un “borghese moderato”, simpatizzante dei ceti conservatori, in realtà io penso che sia stato un vero liberale. Il fatto è che (solo) in Italia i liberali vengono considerati dei conservatori, in realtà il liberalismo è una faccia della medaglia rivoluzionaria (l’altra è il socialismo) e pertanto personalmente considero de Roberto un vero e proprio rivoluzionario. Lo si capisce dal suo feroce e costante anticlericalismo, dal suo disprezzo verso l’aristocrazia siciliana e tutto il mondo del vecchio regime borbonico. Mentre ne “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa trapela una sottile nostalgia per quel mondo, qui abbiamo un vero e proprio disgusto per esso. De Roberto, vissuto nei primissimi anni post-unitari, profondamente intriso di ideali liberali e anticlericali, è un rivoluzionario disilluso e pieno di risentimento per il tradimento degli ideali risorgimentali: loschi arrivisti, personaggi riciclati, politici dediti al clientelismo e nobili voltagabbana hanno sepolto, a suo parere, ogni buona intenzione sotto i macigni dell’opportunismo, della corruzione, della brama di potere e ricchezza. Un libro molto attuale che aiuta a capire molto dell’Italia di oggi.
Bellissimo! Si respira l'immobilismo di una casta, ci si appassiona alle vicende di una famiglia piena di contraddizioni e, volutamente, si vede la società solo attraverso gli occhi dei nobili (vuoti e interessati solo alla "roba"). Necessario sin dall'inizio appuntarsi tutte i legami di parentela per non perdersi. Ma anche questo aiuta ad entrare nell'atmosfera di questo grande romanzo.
Le prime duecento pagine si leggono con difficoltà. Quasi tutti i personaggi vengono introdotti contemporaneamente, e sono tanti, e per di più l'autore li designa a volte col nome, a volte col titolo nobiliare ("il duca", "la principessa", "il barone"), altre volte indicando la relazione di parentela con altri personaggi ("il figlio", "il cugino", "la cognata" ecc.) Bisognerebbe annotarsi subito un albero genealogico. Inoltre, in questa prima parte del romanzo sembra succedere ben poco e anche i caratteri sembrano statici e stereotipati. Confesso di essere stato più volte sul punto di abbandonare la lettura. Dopo, però, ci si accorge che la lentezza di queste pagine ha un senso ben preciso: serve ad evocare la stagnazione, l'immobilismo di quel regno delle Due Sicilie in cui la storia sembrava essersi fermata. Infatti, non appena Garibaldi sbarca a Marsala, il romanzo dà uno scossone, parte come una locomotiva a vapore, e nessuno lo ferma più. I personaggi, una volta che si è imparato a conoscerli e ad "ammirare" la logica perversa che li guida nel loro trasformismo (dato che ovviamente questi "nobili" borbonici, pur di conservare il potere, sono disposti ad indossare qualsiasi casacca), disegnano uno spaccato feroce del peggio della classe dirigente italiana, e meridionale in particolare. Gente spudorata, priva di scrupoli; e non è cambiato niente dall'Ottocento ad oggi, la cronaca sta lì a dimostrare l'attualità dell'analisi di De Roberto, che ci squaderna freddamente davanti agli occhi tutta la miseria umana dei potenti. Si arriva alle ultime pagine completamente avvinti e con la consapevolezza di aver letto un grande capolavoro.
Recensioni
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