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recensione di Carmagnani, P., L'Indice 1997, n. 9
Era il 22 dicembre del 1842. Nerval aveva poco più di trent'anni e da molti mesi manifestava ormai, a fasi alterne, i sintomi di uno squilibrio mentale destinato ad aggravarsi sempre più. Per riprendersi dal primo grave attacco del suo male e per dimostrare a se stesso e agli altri di non aver perduto le sue facoltà e la sua capacità di lavoro, otteneva di farsi assegnare una missione letteraria in Oriente. A partire dall'"Itinéraire" di Chateaubriand, il viaggio in Oriente era stato ampiamente codificato, all'interno della tradizione francese ottocentesca, secondo un sistema di passaggi obbligati che tornano ripetutamente a strutturarne la cronaca. Seguendo le orme di quell'ideale Baedeker, Gautier, Flaubert e molti altri viaggiatori meno noti di loro, avevano fissato sulla complessità del mondo orientale lo sguardo esterno dell'Occidente. Essi viaggiavano dal centro alla periferia, e al centro ritornavano, immutati, con il ricco trofeo esotico riordinato e stilizzato in splendide formule, pronto per essere offerto, nella sua veste più rassicurante, allo sguardo stupito di altri occidentali avidi di novità.
Con questa retorica del viaggio in Oriente, Nerval non poteva fare a meno di confrontarsi, e non è un caso che egli elaborasse per anni quelle che divennero poi le pagine del "Voyage", rifacendole, pubblicandole in ordine sparso, trasfondendole in altre opere, nel vano tentativo di adattarle alle esigenze di una normalità letteraria mai raggiunta. La pubblicazione in volume dell'opera, che per la prima volta appare oggi in Italia in versione integrale in una bella edizione sapientemente curata da Bruno Nacci, ha il sapore della rassegnazione, della definitiva accettazione di una irrimediabile alterità. Tuttavia nell'agile leggerezza della narrazione nervaliana le frontiere geografiche perdono di significato e l'Oriente diviene lo spazio sacrale di un percorso interiore, situato ai confini dei paesi attraversati dal viaggiatore e infinitamente più carico di senso. Il "frivolo europeo", scrive Nerval, si scoraggia in fretta di fronte agli enigmi e ai misteri di un mondo in cui "la bellezza, come un tempo, si circonda di veli e di bende", e subito riparte, "in cerca di altre delusioni", verso altri simboli di un immaginario esotico destinato a offuscare ogni esperienza reale.
Per Nerval, invece, non esiste inferiorità del reale rispetto all'immaginato, poiché la realtà stessa assume nelle pagine del "Voyage" la leggera inconsistenza del sogno. Egitto, Libano, Turchia: le immagini perdono i contorni netti e rassicuranti di quella che chiamiamo realtà per sfumare nella luce incerta della visione, dando vita a un universo magico in cui i miti di un remotissimo passato si confondono con le ossessioni personali. Attraverso la progressiva eliminazione della struttura unitaria e conchiusa della cronaca di viaggio tradizionale, prende forma una rete complessa di aloni, di zone laterali, di aree di risonanza, che compone nell'inscindibile legame nervaliano fra vita e letteratura l'eco di un'unica opera.
Pochi anni dopo la pubblicazione in volume del "Voyage", parallelamente all'esplosione della malattia, Nerval dava alle stampe gli ultimi capolavori: nel gennaio del 1854 uscivano "Le figlie del fuoco" e il primo gennaio del 1855 veniva pubblicato l'inizio di "Aurélia", sconvolgente testamento spirituale ed estetico che del "Voyage" costituisce l'incompiuto e ideale capitolo conclusivo. Nella mistica figura di Aurélia si cristallizzano infine le sembianze sfuggenti di un eterno femminino lontano e seducente, che da tempo lo ossessionava e che diviene nel "Voyage" oggetto privilegiato di una incessante e irrisolta ricerca.
Dalle bionde avventure viennesi alla "gialla giavanese" acquistata al Cairo, le donne reali si mutano qui in archetipi mitici, la cui matrice originaria viene identificata nella figura della dea Iside. E Iside sarà anche il nome di una delle figlie del fuoco, "nome magico" che, in "Aurélia", il protagonista invocherà associandolo a quello "della madre e della sposa sacra". La contemplazione della dea, narra Nerval nella parte egiziana del "Voyage", costituiva la suprema ricompensa per l'iniziato che aveva superato tutte le prove. Egli "vedeva animarsi quella fredda statua, i cui tratti all'improvviso assomigliavano a quelli della donna che amava maggiormente o all'ideale che si era fatto della bellezza perfetta", ma, nel momento in cui tendeva le braccia per afferrarla, la dea "svaniva in una nube di profumo". Archetipo materno sacrale e inaccessibile, questa figura è all'origine dell'immagine, ricorrente in tutta l'opera nervaliana, della "belle dame sans merci", oggetto di un amore negato e impossibile.
Essa trova la sua incarnazione privilegiata nel personaggio mitico della regina di Saba, che da tempo occupava la fantasia di Nerval. Come ricorda nei "Piccoli castelli di Boemia", il "fantasma splendente" della regina "tormentava le sue notti", fondendosi con le sembianze dell'amata Jenny Colon, quell'"altra regina del mattino la cui immagine tormentava le sue giornate". Per riunire in una sola figura "le due metà del mio doppio amore", Nerval progettò di scrivere un libretto d'opera intitolato, per l'appunto, "La regina di Saba", che avrebbe dovuto essere interpretato da Jenny, consacrandola regina dei teatri parigini. Ma il progetto si arenò, l'attrice fugg" e Nerval si ritrovò, solo e disperato, fra gli esorbitanti cumuli del materiale raccolto per la documentazione. Alcuni anni dopo, la storia biblica della regina di Saba, filtrata e rielaborata attraverso la letteratura islamica e le leggende preislamiche, verrà trasfusa nel lungo racconto che chiude il "Voyage" (già pubblicato da Marsilio nel 1992 in "La regina del mattino e Solimano principe dei geni").
Più che mai si rivelano qui le tensioni della vita e della poetica nervaliana, che il tessuto della narrazione mitica tenta invano di risolvere in una prospettiva unitaria. La vicenda mette in scena lo scontro fra due genie diverse e mortalmente nemiche, sotto cui si cela l'eterna lotta, cara all'immaginario romantico, tra forza censoria del potere e libertà creatrice. A Solimano, appartenente alla discendenza dei re d'Israele, espressione del potere costituito, si oppone Adoniram, artista misterioso dalle origini ignote, unico depositario di un oscuro potere creatore. Ma, nell'universo nervaliano, l'identificazione esclusiva con la propria opera porta alla precarietà di un'esistenza intimamente dispersa e frammentata: nonostante il suo genio straordinario, Adoniram è solo e impotente di fronte alla forza, legittimata dalla discendenza, di Solimano. Non esiste identità possibile senza la coscienza della propria collocazione nell'ambito di una genealogia che, con il vincolo del sangue, garantisca una continuità cronologica fra l'incertezza del futuro, la contingenza del presente e il tempo immemoriale delle origini.
Adoniram dovrà allora viaggiare fino al centro della terra per ritrovare finalmente quel legame perduto che, solo, gli permetterà di opporsi al potere di Solimano. Dal riconoscimento dell'appartenenza alla razza maledetta dei geni del fuoco, egli trae la sua forza, in esso trova la sua identità, l'origine stessa del suo talento, e quella parte smarrita di sé costituita dal suo doppio femminile. Balkis, regina di Saba che Solimano vorrebbe possedere come qualcosa a cui ha diritto, appartiene alla stessa razza di Adoniram ed essi si posseggono solo perché si riconoscono. Come Adoniram viaggia verso il centro della terra, Nerval viaggia verso l'Oriente: il suo è un cammino iniziatico verso la patria originaria, verso l'immagine ideale di una donna eternamente sfuggente, verso se stesso e la propria identità perduta. Ma, alla fine del racconto, mentre già il viaggio si avvia al termine, Adoniram muore e resta il senso di un'irreparabile frattura, di un'ultima sconfitta. "Riguadagno il paese del freddo e delle tempeste, e già l'Oriente per me non è che uno di quei sogni del mattino, a cui succedono in breve giorni noiosi", scriveva Nerval sulla strada del ritorno.
Una gelida notte di dodici anni dopo egli s'impiccava in un vicolo parigino: "Non aspettatemi stasera, perché la notte sarà nera e bianca". In queste ultime parole che conosciamo di lui, si misura, forse, il significato profondo del "Voyage", estrema esitazione sull'orlo dell'abisso, ultima illusione prima di lasciarsi andare. Sfumato il caleidoscopico sogno orientale restano il bianco e il nero di quell'ultima notte, somma e annullamento di tutti i colori.
Nerval in italiano
L'editoria italiana non offre molto a chi volesse approfondire la conoscenza di Nerval esplorando la sua produzione narrativa e lirica. Con l'eccezione dei racconti di "Le figlie del fuoco", disponibili sia nei "Tascabili" Einaudi (con saggi di Théophile Gautier e Julia Kristeva, Torino 1990, trad. di Elena Citati e Franco Calamandrei, pp. XXIX-262, Lit 12.000) sia nei "Grandi Libri" Garzanti (a cura di Vincenzo Cerami, Milano 1983, trad. di Renata Debenedetti, pp. XXX-262, Lit 17.000), le sue opere tradotte sono poche e difficili da rintracciare.
Bompiani ha pubblicato la sola "Sylvie" - una delle "Figlie del fuoco" - in un'edizone con testo a fronte a cura di Oreste Macr" (Milano 1994, pp. 106, Lit 10.000). Una parte del "Viaggio in Oriente" era stato già tradotto presso Maroni (Ripatransone, Ap, 1994, trad. di M. N. Croci e M. Dardari, pp. 190. Lit 18.000), mentre Marsilio aveva pubblicato il racconto che chiude il "Viaggio" ("La regina del mattino e Solimano principe dei geni", a cura di Luca Pietromarchi, Venezia 1992, pp. 320, Lit 18.000) e Studio Tesi "L'Harem" (a cura di Graziano Benelli, Pordenone 1995, trad. di A. Apollonio, pp. XIV-98, Lit 4.000).
Per quanto riguarda le altre novelle, sono state edite di recente, ma si trovano con molta difficoltà, "Le notti d'ottobre" (a cura di Stefano Chiodi, postfaz. di Mariolina Bongiovanni Bertini, Lindau "Nuove letture" n.11, Torino 1991, pp. 80, Lit 12.000) e "La mano incantata" (a cura di G. Radicati, Tranchida, Milano 1995, pp. 84, Lit 8.000).
Infine, la più recente traduzione italiana delle liriche risale al 1972, ed è quella einaudiana di "Chimere e altre poesie" (Torino 1972, trad. di Diana Grange Fiori, pp. 212, Lit 13.000)."
recensione di Cacciavillani, G., L'Indice 1997, n. 9
Non viaggio romantico, ma discesa alle Madri è, nel suo nucleo essenziale, il "Viaggio in Oriente" di Nerval, che l'editore Einaudi, con un gesto di grande coraggio, ha messo oggi a disposizione del pubblico italiano. Viaggio nel regno della grande madre mediterranea. "Nel Medio Evo abbiamo ricevuto tutto dall'Oriente; ora vorremmo restituire a questa fonte comune dell'umanità i poteri di cui ci ha dotati, per far di nuovo grande la madre universale; là risiede la nostra forza futura". Sono parole impressionanti, vettori di un movimento irrefrenabile, sacralità di un culto cui è impari persino Proust. C'è una "scena" (nel senso freudiano della parola) che ossessionerà la mente di Nerval sino alla fine: quella cristiana della Vergine col Cristo bambino in braccio o quella egizia di Iside col figlio Oro. Questa elevazione dell'unità duale madre-figlio al dominio del sacro conferisce una potenza singolare ai protagonisti della coppia, tanto che la "sproporzione antropologica" (Binswanger) di cui Nerval si fa portatore farà tutt'uno col suo delirio "teomanico".
L'esemplarità del casto rapporto di Polifilo e Polia, separati in vita e uniti solo dopo la morte, si sostiene tutto sulla comune credenza in questa scena originaria: "Credettero di vedere nella Vergine e nel figlio l'antico simbolo della grande madre divina e del bambino celeste che accende i cuori? Osarono penetrare attraverso le tenebre mistiche sino alla primitiva Iside, dal velo eterno, dalla maschera mutevole, con in mano la croce ansata e con alle sue ginocchia il piccolo Oro salvatore del mondo?". Iside in primo luogo, la Venere delle fiamme, la Venere degli abissi, Afrodite Melaenia la nera, Astarte, Balkis, Cibele, Cerere e Vesta... tutte le divinità si confondono in Nerval nella celebrazione iperidealizzante di una "imago" profondamente interiorizzata e tanto vasta da rischiare di vaporizzarsi nel suo stesso movimento di dilatazione infinita. Ma la grande dea, se è "genitrice", è ora e sempre "generatrice", come fonte da cui tutto proviene e verso cui tutto ascende, nell'inesausto ciclo delle'eterno ritorno, ove il tempo lineare è abolito. Sul piano delirante di una retroversione della durata: "È il paese che ha rianimato le forze e l'ispirazione della mia giovinezza. Avevo pur sentito che poggiando il piede su questa terra materna, rituffandomi nelle venerate sorgenti della nostra storia e delle nostre credenze, potevo fermare il corso degli anni e ridiventare bambino in questa culla del mondo, ancora giovane nel grembo di questa eterna giovinezza".
Ci accecano di luce questi testi straordinari di Nerval sul ritorno alle origini, per l'area di spiritualità con cui il vissuto viene espresso da una parola pura e tersa. Ci sono momenti in cui la malinconia e l'"ombra dell'oggetto" cedono il passo (come dice Abraham a proposito del folle Segantini) allo "splendore del seno", in cui la madre "diventa a poco a poco la figura ideale, la divinità, al cui culto fu votata l'arte del figlio".
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