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Anno edizione: 1998
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
recensione di Sozzi, M., L'Indice 1991, n. 8
È noto l'aneddoto secondo cui Flaubert, durante il viaggio in Egitto (1849-50), mentre l'amico Maxime Du Camp lo invitava a osservare non so più quale aspetto di un importante monumento, rimasto un attimo pensieroso avrebbe esclamato: "La chiamerò Madame Bovary". Come per dire che, anche sbalestrato in un mondo esotico, e dinanzi a testimonianze che avrebbero dovuto soggiogarlo, lo scrittore in realtà non osservava nulla e non pensava che a sé e all'opera che aveva in gestazione.
Dagli appunti del suo "Viaggio in Egitto", per altro, nulla di questo genere può dedursi. È vero che la sua "invincibile curiosità", come Flaubert la definisce, è da lui stesso sollecitata in direzione libresca: "Ho infatti questa mania, di costruire subito dei libri sulle figure che incontro". Ma è anche vero che quella curiosità gli fa spalancare gli occhi su un mondo di cui certo gli interessano, occorre dire, non tanto gli aspetti archeologici ed eruditi che potevano primeggiare, com'è ovvio, nelle "Lettere sulla Nubia" di Champollion che pure cita e conosce, n‚ le risonanze storico-culturali che avevano affascinato Chateaubriand, n‚ i risvolti socio-economici che parranno interessanti ad una sansimoniana come Suzanne Voilquin, e neppure gli spunti che potevano prestarsi a un descrittivismo di tipo parnassiano, come accade nelle coeve pagine diaristiche dell'amico Gautier. Flaubert coglie con avidi occhi e fissa sulla carta mille cose, ma sempre riconducibili ai motivi più suoi, alle sue idee più fonde e più ossessive, agli spunti che meglio si prestano ad una sperimentazione espressiva che alterna il fraseggio colorito e sontuoso a quello più asciutto ed ellittico: onde nelle sue pagine di diario già prendono forma, può dirsi, la scrittura di "Salammbô" accanto a quella di "Bouvard et Pécuchet".
Chi ha in mente certi tramonti di "Madame Bovary", quando Emma osserva da un lato l'incendio del cielo, dall'altro la sagoma scura e deprimente di Charles, oppure dell'"Èducation sentimentale", quando Frédéric a passeggio per gli Champs-Èlysées mentre il sole cala dietro i cupi fogliami delle Tuileries s'illude di rivedere in ogni donna il volto di Madame Arnoux, non può non sussultare imbattendosi qui in una quindicina di 'couchers du soleil' che paiono carichi di allusioni e presentimenti. Flaubert ne coglie la screziata varietà, esalta e differenzia i colori della sua tavolozza, ma al di là del descrittivismo è come se nella sua pagina già affiorasse una tematica che sarà ricorrente negli anni del simbolismo, quella del crepuscolo come momento privilegiato, dell'ora in cui la luce trascolora come occasione di verità di promessa, quasi di epifania.
Ci sono poi in Flaubert una vorace gioia contemplativa, una "gioia solenne", così egli dice, in presenza di paesaggi infiniti, di notti stellate e di silenzi ineffabili, ma anche una "voluttà intima", quel senso corposo della materia e delle cose che è fatto insieme di piacere sensuale e di ansia di sublimazione: "la sensualità, egli scrive, non è lontana dalla tenerezza". Ecco allora gli episodi erotici del racconto, i profili di donne, la cui lascivia è anche tenera dolcezza e la cui superba bellezza ricorda l'eleganza di movenze e di gesti che si coglie su certi vasi greci antichi: anche di questo resterà traccia, nota bene Pietromarchi, in pagine di "Salammbô" e di "Hérodias".
L'Oriente affascina Flaubert innanzi tutto per la molle sensualità che gli sembra che emani da ogni cosa e si respiri nell'aria. Il viaggiatore avverte, qua e là, problemi e dilemmi storico-culturali, sente ad esempio che una qualche effigie debba nascondere "un più alto senso simbolico", ma il suo sforzo interpretativo non va più in là. Lo colpiscono certo tante cose, le piramidi, gli obelischi, e soprattutto la Sfinge, la cui immagine com'è noto sarà sempre per lui ossessiva sino a caricarsi nella "Tentation de Saint-Antoine" di una simbologia intensa ed alta. Ma dei monumenti egli si stanca, come già gli era accaduto per le chiese di Bretagna. Assai più lo coinvolgono le atmosfere, le calde sensazioni, e soprattutto la varia umanità che lo circonda, un'umanità che gli appare sorridente e attraente solo se si tratta, come si è detto, di ammalianti danzatrici, oppure di incantevoli adolescenti, ma che per il resto sembra disfatta, degradata come le pietre e le colonne, rosa da una lebbra, da una febbre. Già si fa strada qui quel gusto dell'orrido, dell'amara caricatura, del "grottesco triste", che poi tanto spazio occuperà nelle opere di Flaubert più famose.
Ecco allora il bambino gobbo e rachitico che si trascina nella polvere, l'orrore e il fetore che emanano dai sifilitici nell'ospedale di Kasr-el-A'ni o, in un altro ospedale, i pazzi che urlano o la rancida vecchia che tenta di sedurlo dimenando i suoi flaccidi seni. Ecco la donna che somiglia a un pappagallo, ecco Hakakim Bey col suo grande naso, simile a un animale fantastico, mezzo rospo e mezzo tacchino: Rabelais e Bosch ammiccano dietro questi feroci schizzi. Il mostruoso e il raccapricciante si estendono anche alla natura, agli animali: con che disgusto ma anche con quale compiaciuta attenzione Flaubert descrive gli spazi chiusi invasi dai pipistrelli, o i cumuli di escrementi d'uccelli sogli obelischi, o le carogne di cammelli divorate da cani e sciacalli.
Flaubert conosce a fondo quest'ebbrezza squallida della consunzione e della morte. Ma sempre in lui, come già in Hugo ma in forme più esasperate e più livide, il grottesco è sintesi di vile e di sublime, il gusto della degradazione tradisce una nostalgia di pienezza. È la nostalgia che fa intendere come, anche nel viaggio, egli conosca un tedio che non gli dà tregua, che veda ovunque segni di tristezza, che coltivi la sua malinconia. Triste è il momento della partenza: in treno, al momento di staccarsi dalla madre e dagli amici, Gustave si lascia andare a un pianto senza ritegno. Ma triste è anche il momento del ritorno e lo stesso scrittore si chiede perché sia così penoso il distacco da antiche pietre. Triste è l'ultima visita a Kuchuk-Hƒnem, triste il vento afoso che sparge sabbia ovunque, di infinita amarezza è anche l'incontro con sconosciuti, l'incrociarsi con altri viaggiatori su contigui battelli o in carovane che si vanno avvicinando e poi a poco a poco come fantasmi si allontanano senza che non una parola, neppure un cenno siano stati scambiati.
Qui forse può cogliersi il senso della malinconia flaubertiana, quella malinconia così connaturata all'idea di viaggio, di mutato orizzonte, che sostanzia anche il celebre attacco del penultimo capitolo dell'"Èducation*. Flaubert ama l'Oriente perché si configura ai suoi occhi come promessa immancabilmente delusa: "Una canga a vela passa in basso: ecco il vero Oriente, impressione di malinconia e sonnolenza; presentite già qualcosa d'immenso e inesorabile in cui siete perduti". Presso El-Quseir, la vicinanza del Mar Rosso scatena nel viaggiatore un desiderio ardente: "C'è odore di mare, l'umidità penetra i nostri vestiti". Nella sua impazienza egli va a piedi, corre sui sassi per scoprire più rapidamente la distesa marina. Poi, l'osservazione disincantata: "Quante altre volte non ho già consumato il mio cuore in impazienze altrettanto inutili!". Eppure, il sentimento malinconico Flaubert ama coltivarlo e custodirlo perché racchiude in sé due aspetti essenziali della sua sensibilità: il desiderio di un supremo appagamento e la consapevolezza distruttiva della vanità di ogni possesso. Perciò preferisce tener le cose sospese, sceglie come Frédéric le vie della rinuncia. Un'ultima citazione, estremamente indicativa: "Ritorniamo sulla via delle almee, passeggio apposta là; esse mi chiamano... Do all'una e all'altra delle piastre; qualcuna mi afferra con le braccia per trascinarmi con sé, proibisco a me stesso di s... con loro affinché la malinconia di questo ricordo mi resti meglio, e me ne vado". La volgarità del possesso sciuperebbe un sentimento che, conservato intatto, nella sua disincarnata trasparenza, è caro al cuore perché in qualche modo tiene in vita una nostalgia, un desiderio, forse un'ideale speranza.
David Roberts, il grande orientalista inglese, girò per l'Egitto alla metà dell'Ottocento, disegnando i monumenti e i siti archeologici, con grande gusto cromatico. è la prima edizione italiana dei disegni di Roberts, pubblicati in accordo con il Museo Victoria & Albert di Londra. L'Egitto come lo ha visto Flaubert e come lo ha disegnato Roberts. Nell'ottobre del 1849, Gustave Flaubert insieme all'amico Maxime Du Camp, parte per un viaggio in Oriente che lo porterà in Egitto, in Palestina, in Asia Minore, a Costantinopoli, in Grecia e in Italia: un lungo itinerario di oltre due anni, che, per i primi otto mesi, vedrà Flaubert risalire il Nilo fino alla Nubia. Dal soggiorno in Egitto, Flaubert ha tratto un eccezionale reportage di viaggio, un affresco di grande partecipazione emotiva della terra dei faraoni, continuamente in bilico tra un passato irripetibile e un presente di povertà e di miseria.
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