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Non si considerava "un professionista della critica", ma Geno Pampaloni è stato, probabilmente, il più grande critico militante del XX secolo: ha prodotto una mole impressionante di recensioni, saggi e curatele editoriali, ma con un'altrettanto impressionante riluttanza a raccogliere i suoi scritti in volume. Come se, alla sola idea di evitare la dispersione di questo pescosissimo oceano cartaceo, il Bartleby che albergava in lui ripetesse automaticamente "Preferirei di no". Perché lavorare nell'industria editoriale gli aveva offerto, scriveva, un "osservatorio prezioso per riconoscere quanto spesso sia oggettivamente pleonastico l'esercizio dello scrivere e del pubblicare". Giudice onesto e senza pregiudizi dei libri altrui, giudice severissimo, dunque, dei propri scritti.
È compito, allora, degli eredi (diretti e d'elezione) rimediare, almeno in parte, a questo scialo di sé, assai nocivo per lettori curiosi e studiosi scrupolosi di una letteratura, la novecentesca, che pochi hanno conosciuto così minuziosamente. Forse un "tutto Pampaloni" rimarrà un desiderio inesaudibile, ma un primo risarcimento a tale mancanza era apparso nel 2001, l'anno stesso della morte, con un volume (Il critico giornaliero, Bollati Boringhieri) curato da Giuseppe Leonelli che allineava recensioni e brevi saggi, scelti a ricapitolare le virtù del critico: la chiarezza, l'imparzialità di un giudizio partecipe e sempre argomentato e dimostrato con esempi, il gusto del ricondurre l'opera recensita a una linea letteraria o alle prove precedenti del suo autore, l'attenzione alla dimensione etica della letteratura. E, ciliegina sulla torta, una prosa cristallina scintillante di immagini e d'arguzia, di saporosa e altissima tradizione toscana.
Appare adesso, per le cure della figlia Anna e di Milva Maria Cappellini, un libro che raccoglie scritti di natura riflessiva e memoriale, ma anche schegge di garbata narratività. Vi sono, certo, rievocazioni di letterati e artisti (Fortini, Silone, Pasolini, Ragghianti, Calvino, tra gli altri) e un bel ritratto in controluce di don Milani ("Finì con lo sbattere la porta in faccia agli intellettuali, anche agli amici, libreschi e non chiari, cui non veniva mai in mente, dopo mangiato, a Barbiana, di lavare i piatti. Non si trattava di scatti di nervi, ma di una intransigenza così profondamente vissuta da divenire tirannica"), ma anche testi di memoria privata e pubblica (gli anni della guerra, soprattutto, e dell'utopia olivettiana), nei quali talvolta colui che ricorda e colui che è ricordato finiscono per specchiarsi e ritrovarsi: come quando, di una figura così apparentemente distante come Fellini, scrive che "gli andava a genio la mia religiosità cristiana, che era anche la sua, in precario equilibrio con la moralità del laicismo".
Né si tratta solo di ricordi, perché anche in un frammento memoriale Pampaloni non dismette la passione del giudizio critico. Si legga come inizia un ritrattino di Angelo Fiore, di cui fu, per anni, solitario mentore: "Grande scrittore siciliano oggi del tutto dimenticato, anche perché Sciascia, forse (e Dio mi perdoni) per gelosia, non gli ha mai dedicato attenzione pubblica. Più siciliano di Sciascia, libero da influenze parigine, immerso com'era in una sua luttuosa solitudine".
In tutte queste pagine, Pampaloni è presente con tutte le caratteristiche della sua prosa. Per definirla ricorro all'introduzione di Milva Cappellini, studiosa raffinata che svaria con egual maestria tra D'Annunzio (di cui tutto conosce) e Benni (si veda una recente monografia per Cadmo): "Libertà del gusto e del giudizio, passione della lettura, energia pacata della scrittura; e poi senso etico sempre vigile, chiarezza di sguardo, attenzione implacabile, sentimento della serietà della vita; insofferenza del conformismo nelle scelte come della retorica nello stile; e, ancora, una misura di sensatezza e di equilibrio capace di nutrire allo stesso modo un'ironia senza sprezzo e un tratto di cordialità umanissima; infine, come in filigrana e poi di giorno in giorno più chiara, una malinconia senza teatralità".
Sia che ricordi volti o città, paesaggi cari di Toscana o trascorsi di gioventù, Pampaloni è lì, Bartleby defilato ma onnipresente. E lo stesso accade quando affronta questioni di portata più ampia, come la specificità del mestiere di critico letterario, di cui parla con pacificata onestà ("Senza libri, la mia vita sarebbe diversa, certo meno assediata dagli incubi, ma più povera") o con lieve ironia: "Il recensore esiste in funzione di un lettore libero, esigente e paziente. Può darsi che codesto tipo di lettore sia in estinzione; estinto che sia, finirà allora insieme con lui anche la figura del recensore. Mi considero fortunato (coraggio, amici avversari): l'età incalza, la pensione è vicina", scriveva Pampaloni nel 1987. Sono passati ventun anni e si scrivono ancora recensioni sui giornali: ma dubito che qualcuno rimpiangerà mai la mancanza di un libro che raccolga le recensioni (e Dio mi perdoni) di Antonio D'Orrico. Giuseppe Traina
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