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Chi suppone che si possa parlare di "tempo libero" alla leggera, come fosse soltanto un discorso frivolo, da gente vacanziera, non perda l'occasione di leggere questo libretto di Mothé per capire, invece, quanto problematico e intorcigliato sia diventato oggi un argomento del genere. In una novantina di pagine l'autore (che è stato operaio della Renault e militante sindacale prima di darsi alla sociologia) è riuscito a mettere assieme in proposito, insospettabilmente, una gran massa di fulmineggianti rimarchi e pensieri. In una prima parte del suo libro egli insidia e rovescia dalle fondamenta alcuni dei più ovvi luoghi comuni, come quello di credere che ogni uomo di normale senno e sentimento preferisca migrare nel tempo libero come uccello di passo, piuttosto che languire nella costrizione, nella stanchezza fisica e psicologica del lavoro. Sostiene Mothé che, nonostante le apparenze, questo è presupposto fallace perché, in una società "ammalata di disoccupazione" com'è la nostra, il timore di perdere il lavoro ha il sopravvento su qualunque riflessione crucciosa attorno alla sua durezza e penosità. Dunque, nel celebrare i pregi del tempo del non-lavoro s'illudono quanti l'identificano con quello della pratica delle virtù sociali e dell'inculturamento; così come, all'opposto, s'illudono quelli che ne fanno un requisito indispensabile alla fioritura delle attività ludiche, e dunque un valore utilitaristico da non perdere, a beneficio dello sviluppo economico. In polemica con entrambi, sostiene Mothé che nelle circostanze attuali il "tempo libero", non è un'alternativa realistica, ma una trasognata utopia. Ma non è forse vero che il tempo libero è quello dell'affrancamento dell'uomo dalla dipendenza dal macchinismo sempre più tecnologizzato e pervasivo? Sostiene Mothé (ma non è cosa nuova) che oggi il lavoro ha perso gran parte della natura umiliante e oppressiva che l'ha caratterizzato dagli inizi dell'industrializzazione fino all'età del taylorismo. Dopo aver servito la macchina e dopo essersene servito, passando dalla prima alla seconda rivoluzione industriale, ora, nella società postindustriale, il lavoratore la controlla, la ripara e accudisce in un rapporto, magari imperfetto, ma di gestione compartecipativa. Si dice che in tempi di "toyotismo" trionfante la "fabbrica integrata" gli conferisca responsabilità, intraprendenza e una relativa autonomia, che gli rendono il lavoro "gratificante". Ma, tornando alla piaga della disoccupazione, non è che la meccanizzazione, avanzata fino ad aprire le porte dell'industria ad automi e robot, ne esasperi gli effetti secondo il detto: più tecnologia, meno occupazione? Sostiene Mothé che la tesi degli "utopisti" - per i quali l'uomo è destinato a essere sostituito dalle macchine, magari ricavandone i vantaggi del riscatto dalla fatica e occasioni di fruire d'un tempo sempre più lungo di non-lavoro - è smentita dalla persistenza di lavori non sostituibili con processi meccanici. C'è da credere che egli voglia riferirsi al riciclaggio di vecchi mestieri, quelli degli operatori del "buon tempo antico" (falegnami, idraulici, fabbri, imbianchini, ciabattini, ecc.) e all'emergenza di nuovi, come quelli del "terzo fattore", di recente teorizzato da Jeremy Rifkin, definito del "no profit", ovvero dei non lucrevoli servizi sociali affidati al volontariato pubblico e privato. Ma è specialmente nella seconda parte del libro che si concentrano le riflessioni più acute e originali, là dove si affronta il tema del tempo libero sotto il profilo dei problemi sociali che oggi vi sono connessi. Un primo quesito: i beni del tempo libero, in termini di svago e di evasione, sono accessibili a tutti? E poi: favoriscono la socializzazione o no? I vari livelli di indigenza insidiano prospettive di questo genere. Ha scritto Camus: "La povertà fa più corta la memoria, illanguidisce lo slancio delle amicizie e degli amori. Trentamila lire al mese, vita di officina, e Tristano non sa più cosa dire alla sua Isotta". Sostiene Mothé che nel tempo libero si inaspriscono tutte le discriminazioni e ineguaglianze sociali. È nata un'industria del tempo libero, i cui beni sono usufruiti dai ceti benestanti: la società si divide anche in questo campo tra ricchi-consumatori, che se ne sentono gratificati, e poveri non-consumatori che ne ricavano aborrevoli frustrazioni. questo spingerebbe dunque a rivendicare più salario, piuttosto che più tempo libero, col seguente paradossale risultato: che oggi si può accedere ai beni del tempo libero quanto più si lavora per elevare il reddito necessario a usufruirne. Sono pochi e di basso livello gli svaghi che rispondono allo slogan americano "a good time for a dime!". Per di più, a dispetto di ogni utopica aspettativa, nel godimento di questi beni non c'è spazio, se non in quelli più costosi e sofisticati, per la socievolezza. alimentato dalla tecnologia e dai media, questo è il tempo dell'individualismo, e i più contaminati ne sono proprio i più poveri. Sembrerebbe una sorta di proiezione sulla società dell'esperienza di fabbrica, dove, come raccontava anni fa un operaio della Marelli, "l'organizzazione del lavoro come è adesso non aiuta a unire, non aiuta la solidarietà, favorisce l'individualismo. Oggi non c'è più calore nelle persone, sia in fabbrica che fuori fabbrica". Anche nelle attività sportive va predominando lo spirito individualistico, come dimostrano specialmente quelle di provenienza nordamericana, dal windsurf allo jogging, che già Henri Lefebvre additava tempo fa come modelli imitatissimi di "sport solitari". Ad attenuare le ineguaglianze sociali in questo campo, non pare vi sia rimedio migliore dell'intervento equilibratore dello Stato, che sovvenziona le attività del tempo libero (il turismo, in primo luogo) riducendone i costi, organizzandole o perfino regolamentadole attraverso apposite associazioni, centri sociali ecc. Dal canto suo, l'industria ha incoraggiato il consumo di beni del tempo libero col sistema della rateizzazione, ma la conseguenza torna a essere la stessa: il credito nei consumi spinge a lavorare di più, precipitando l'umanità consumatrice nelle spire di un circolo sempre più vizioso. Sostiene Mothé, dunque, che ci sono buone ragioni per dire che l'apologia del tempo libero non è altro che un incitamento indiretto al lavoro: in conclusione, è impossibile uscire dalla civiltà del lavoro. Almeno finché dura il clima di insicurezze che ci avviluppa, con la precarietà degli impieghi, le minacce alla salute, le violenze della malavita, il tempo libero resta un'utopia, come quelle che si sono snocciolate nel corso della mitologia e della storia: dall'"età dell'oro" o del "Paese di Cuccagna", alle preveggenze di Campanella e di Tommaso Moro, giù giù fino a Morris e Godwin, a Cabet e Weitling, per finire, alle soglie del Duemila, con le eccitanti fantasie telematiche attorno ai poteri della "megamacchina" e della "macchina superintelligente".
recensioni di Monteleone, R. L'Indice del 1999, n. 02
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