Ricordiamo Charles Foster Kane, il pezzo grosso della stampa di Quarto potere, solo e smarrito nel suo castello di Candalù mentre rievoca in sei lunghi flashback la sua scalata al potere, e il suo declino. Stando alle parole di François Truffaut (che disse di appartenere a una generazione di registi così colpiti dal film di Orson Welles da non poterne più prescindere), potremmo azzardare che qualche scrittore italiano, dopo questo curioso libro di De Marchi, deciderà di occuparsi del signor Berlusconi non già per provocazione interesse o ideologia, ma avendo letto L'uomo con il sole in tasca. Ammesso che pure un romanzo sui generis lo si legga come si legge l'opera di uno scrittore-scrittore, invasi da un demone, e senza troppe speculazioni pensose. Libro, questo, forse complementare al film di Welles nell'esercizio di denudamento senza giudizio del protagonista, eppure del tutto divergente per quel che riguarda la scena dei fatti: non una residenza signorile, nemmeno un luogo d'assemblea, ma uno stanzino di tre metri quadri provvisto di branda e bacile, dove il Presidente del Consiglio viene sequestrato da tre balordi mascherati, sorta di nuove Brigate Rosse decise a sottoporre l'uomo a un processo privato, sebbene ostinatamente definito "popolare". Non un territorio di ricchezza dal quale prendere le distanze, ma una gabbia. Libro, perciò, che sposta l'obiettivo del romanzo politico dalla denuncia sociale alla scomposizione degli elementi sociali, una scomposizione tutta ambigua, certo, e che nel rappresentare il processo a un singolo uomo politico realmente esistente o esistito (seppure non se ne faccia mai il nome) mette in scena tutt'altro più interessante processo: quello del personaggio letterario stesso, le cui relazioni con il personaggio vivente illuminano l'uomo reale a tal punto da cristallizzarlo, da farne un personaggio letterario a tutto tondo. Quasi che il mondo stesso, sia pure perverso e mostruoso, faccia bene alla pagina scritta. Inutile raccontare il plot del libro, diciamo soltanto che il signor B. viene catturato in seguito a una sparatoria e rinchiuso in un appartamento romano, dal quale l'uomo, sconvolto, stanco, indispettito, chiede delle calze di filo di scozia e della biancheria di seta. Verrà interrogato da Mario, Luca e una tanto impenetrabile quanto attraente donna, Cecilia, che ha già deciso di ucciderlo a processo concluso. Sembrerebbe una spy story alla John Le Carré, invece ne scaturisce un vero e proprio dramma attico, un omaggio al Giudeo Tifone che, come nella tragedia, inframmezza ai ricordi del protagonista la descrizione ossessiva del suo corpo: fradicio, unto, accovacciato su se stesso, invecchiato, represso, maleodorante, bisognoso d'acqua e affamato; un re in ascolto che ha abbandonato il trono per il trogolo, eppure sopravvive facendo ricorso all'affabulazione perché sa di essere il primo uomo, l'anti-étranger, il letterario. E non solo punta l'arma del suo carisma contro i suoi aguzzini, ma anche contro lo scrittore del libro, De Marchi appunto. Ed è qui che il romanzo si spalanca alla questione più interessante, è qui che il romanzo si allontana vertiginosamente da molti tentativi letterari in questo senso. Se infatti lo scrittore è il dio davanti alla pagina bianca, ed è genitore dei propri personaggi, quali mezzi dovrà mettere in campo per raccontare un uomo che esiste davvero e che, più di tutto, ha condizionato la vita dello scrittore stesso in veste di civile? Non ci troviamo davanti a una vittima della cronaca nera, non ci troviamo nemmeno davanti a un delitto che ha colpito l'immaginario collettivo e che la letteratura prende in prestito per farne un noir, ma davanti a un protagonista dei nostri anni, Silvio Berlusconi, il cui thriller biografico diventa ben presto e questo grazie alla penna di De Marchi un "giallo metafisico" di più amplio respiro, alla Orson Welles; una parabola. Si dirà che la simbologia è acqua passata, che il biografismo contraffatto ha visto il suo splendore in Francia con Marcel Schowb più di un secolo fa; e infatti i punti più forti del romanzo sono quelli in cui il prigioniero rimane da solo con se stesso, vittima di un voyeurismo tanto lontano da quello delle sue televisioni, di un voyeurismo su carta. C'è chi si chiederà perché innalzare ancora una volta, e così smaccatamente, la figura di Berlusconi a personaggio letterario a tutto tondo, ma le colpe di uno scrittore, tanto più se è di razza, sono sempre ingenue. E De Marchi avrà voluto fare questo libro perché ha visto in Berlusconi un Nerone, uno stereotipo della letteratura classica, quel letterario personificato di cui sopra. Perché ha visto in Berlusconi l'altra faccia di Josef K. Due ultime osservazioni-limite: la prima, sul destino del personaggio letterario in questione, che ha qualcosa di originale perché riesce a vincere in ogni modo (e sin dalle prime pagine De Marchi avverte il lettore rispetto alla doppia possibilità del finale: o la vittoria che segue alla liberazione del recluso, o la vittoria del mito che va dietro al suo omicidio); la seconda, per ciò che riguarda la struttura del romanzo in sé, che viceversa si para in faccia due possibilità di perdita: o l'impossibilità di comunicare con un pubblico per scarsità di strumenti, o l'invisibilità della sua struttura e delle sue finalità per la forza emanata dai personaggi messi su carta. Nessuno sa più come salvare la letteratura, nemmeno uno scrittore del calibro di De Marchi, se non altro perché nel caso di questo libro riduce la struttura all'osso, laddove il lettore del Talento e della Furia del mondo si sarebbe aspettato una cornice in più, una complessità narrativa in più, vuoi spostando il punto di vista dall'autore al commissario Luigi Leandri, che segue le indagini con accidia e con mano malferma, vuoi facendone un libro di solo corpo, di sole deiezioni nella solitudine e nell'angustia del bunker. Tuttavia il tranello in cui De Marchi rischia di cadere rinunciando alla complessità narrativa, e quindi cedendo alla struttura doppia del thriller (siamo con il prigioniero, e al capitolo dopo siamo con il commissario che lo cerca), è quello di non permettere ai suoi personaggi, al commissario più che ai rapitori, di posare uno sguardo omogeneo sugli eventi, offuscandone le necessità e le debolezze. Ma troppo alto è ciò che viene scritto per non nutrire il sospetto che l'intenzione dell'autore, in virtù della sua letterarietà, sia ancora una volta anti-romanzesca, e che De Marchi voglia bloccare in un tempo lontano, simbolo di un'èra, tutta l'ombra faustiana di chi, spingendosi con menzogna alla conquista dei grandi imperi, dovrà ammettere di essersene impadronito senza aver conquistato niente. E non è un caso se il leitmotiv del romanzo è l'attesa di una contraddizione: quando l'interrogato-prigioniero si contraddirà? quando sarà possibile condannarlo definitivamente? È una domanda immensa che chiede, tra le righe: quando il genere-romanzo si contraddirà? quando sarà possibile, nella furia del mondo, condannarne definitivamente gli esiti, le intenzioni, le autocritiche? Limitiamoci allora a una lettura istintiva del libro: il procedimento principe che De Marchi opera nel narrare è quello di concentrare l'attenzione di chi legge su una suspense di tipo nuovo, obbligando la curiosità del lettore verso un possibile, ulteriore assolvimento del signor B. o verso una sua definitiva condanna. Due casi che si giustappongono con dolorosa e identica consequenzialità. Alcide Pierantozzi
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