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Pubblicato da Walter Benjamin nel 1936 sotto lo pseudonimo di Detlef Holz, presso una piccola casa editrice svizzera, questo libro diventò presto una leggenda. Mentre il nazismo aveva trasformato la Germania nell’incubo del mondo, un esule tedesco come Walter Benjamin componeva questa antologia commentata di lettere di «uomini tedeschi», alcuni gloriosi – da Lichtenberg a Hölderlin, da W. Grimm a Büchner, da Brentano a Goethe –, altri del tutto ignoti (ma qui in tutto all’altezza dei grandi), a testimoniare di una linea di civiltà, di un costume di vita che erano peculiarmente tedeschi, epperò i più incompatibili col nazismo: ricordo di una costellazione abbagliante, che aveva traversato gli ultimi anni dell’Illuminismo, il Romanticismo e il Biedermeier, per inabissarsi poi negli anni di Bismarck.
Opera di Benjamin sono la scelta, il montaggio e la presentazione dei testi: ma, nelle mani di un tale eminente stratega delle forme, quella che poteva essere una comune antologia diventa una delle sue opere più personali e più audaci. Paradossalmente, proprio questo oscuro lavoro didattico può essere letto come una delle più compiute manifestazioni del pensiero di Benjamin, nel senso che ha precisato Adorno in poche righe del bellissimo saggio che accompagna questo libro: «Così come Benjamin negli ultimi anni della sua vita vagheggiò l’idolo di non scrivere una sua filosofia, ma piuttosto di “montarla” con materiali che parlassero da sé, rinunciando così, per quanto possibile, a interpretarli, in ugual modo ha proceduto in questa raccolta di lettere. La scelta e la disposizione delle lettere devono lasciar trasparire la sua filosofia, senza costringerla in una forma concettuale che la contraddirebbe».
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