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Cinque racconti, quattro dei quali pubblicati negli anni sessanta e salutati già da allora da un successo di critica, e di lettori - che imposero Enrico Filippini come una promessa della letteratura italiana. Per anni, invece, Filippini si dedicò all'editoria e al giornalismo, rimanendo attento lettore e osservatore del fenomeno letterario. Finché, dopo la morte, tra le sue carte fu ritrovata una storia straordinaria, la prima di questa raccolta, che giustamente dà il titolo al libro: "L'ultimo viaggio".
Scritto negli ultimi mesi della sua vita, il racconto riprende i temi, le immagini, le ossessioni di uno scrittore estremamente parco, schivo, di grande semplicità e raffinatezza. In prima persona, vi si narra il viaggio dello scrittore nella terra natale, in un ultimo incontro con la morte dei propri genitori, con la propria infanzia, e memoria. Lo accompagna nel racconto, una donna che si fa involontaria e silenziosa testimone di una rivisitazione, che è soprattutto il dialogo dell'uomo con la propria vita vissuta, il suo significato, i fallimenti, le scoperte, le perdite, le attese. In una lingua semplice, volutamente spoglia, il racconto comunica l'emozione forte che solo si prova di fronte a un gesto autentico: perché questo è, appunto, "L'ultimo viaggio" - il gesto di chi mette a nudo il proprio cuore, in un atto estremo di coraggio e di verità, per prepararsi a morire, o a rinascere. Alla luce di questo emozionante racconto, anche gli altri riprendono vita e vigore. Sono anch'essi, comprendiamo, dei monologhi drammatici, e ironici, in cui un uomo si interroga sui propri amori, incontri, passioni. Con un'unica volontà: raggiungere la dimensione originaria della vita, prima delle parole, e oltre le parole stesse. L'albero, la luce, la montagna, la donna, la vita, la lingua stessa - i protagonisti, cioè, di questi racconti - vengono osservati in assoluta semplicità, con occhio nudo, e prosa spoglia di trucchi, di artifici: di qui la loro toccante bellezza.
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