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Questi racconti sono dei piccoli gioielli, da gustare con calma godendosi tutto il piacere delle atmosfere, dei paesaggi, dei dialoghi.
Un classico del genere. Assolutamente da leggere.
Una scrittura che affascina. Le descrizioni minuziose non sono mai superflue. Alcune chicche, ad esempio il racconto "L'accordo". Traduzione ottima.
Recensioni
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“Non sono mai stata nell’ovest prima”. È terra per davvero?
No.
L’ovest e la terra non sono due cose di materia. Non per gli Americani, non per i loro lettori, non per chi della terra – promessa, maledetta, dura, sterminata e lontana – ha sete e bisogno. Per loro, per tutti loro, la terra è epica.
È epica perché fa sognare, fa viaggiare, fa uccidere. È epica quando illude, condanna, premia e inganna. È epica dove cova vita e morte e amore, e mentre intorno all’uomo alleva mandrie di buoi e nidi di serpente. La terra d’America è un’epica fondatrice che sta a suo agio nelle canzoni e negli inni di chi si ribella così come nel fondo di una bottiglia dietro il bancone di un saloon, nelle preghiere di chi attraversa i confini per mare e per fiume così come nei piedi gonfi e sanguinolenti di un fuggiasco colpevole, nei progetti di chi crede nella legge così come nelle lacrime di chi ha perso la speranza insieme alla gioventù.
La terra d’America è un’epica fondatrice che non ha dèi né eroi e che tanti vi diranno essere prosa di strada. Nulla cambia per lei. La terra d’America è un’epica fondatrice che alza la polvere dalla strada e va a srotolarsi in una raccolta di immagini dall’eco infinita, avanti e indietro tra passato, identità e futuro; un’eco che galoppa distanze mastodontiche e che si rifrange appena prima d’essere troppo lontana. Questa eco oggi è la raccolta di immagini e di racconti L’ultimo serpente di A.B. Guthrie, lo scrittore che l’ovest, una volta, l’aveva visto per davvero e che ora, qui, lo racconta attraverso il sapore e il colore di elementi come questi.
Le botteghe, le assi di legno di un saloon, il whisky, il grembiule indossato da un uomo mentre lavora, la diligenza, la mandria, l’albergo sopra il saloon, la taverna che non è la stessa cosa del saloon, la fattoria vicino alla mandria, i coyote, gli orsi, i lupi, i Pawnee e i Piedi Neri. Nel mio racconto preferito di questa raccolta, La magia delle montagne, c’è un uomo che scappa dai pellerossa e si nasconde nel buio della tana delle marmotte. Lo sapeva che lo avrebbero inseguito, lo sapeva da quando aveva provato quella paura inspiegabile guardando nella nebbia del mattino e aveva capito che al suo amico sbarbatello Bill “non gli potevi far sentire quelle distanze e quei monti altissimi e i venti solitari, e quelle premonizioni che giungevano dal nulla, premonizioni che giungevano alla mente aiutate da medicine per le quali non esisteva neppure un nome”. Medicine che sanno di magia e d’alcol, come quelle che uccidono il cattivo in un altro dei miei racconti preferiti di questo libro di cui però non svelo il titolo perché l’omicidio arriva alla fine ed è la vendetta perfetta di chi ha condotto una vita onesta graffiata per anni dal sopruso e alla fine si è stufato. Deep Creek è il nome del luogo in cui viene trovato il cadavere, un nome che sfida la neve e sfida il fuoco.
Oltre a questo, oltre alle guerre sui campi del Montana tra bianchi e indiani, altri soprusi e altre vendette avvengono tra professori che non considerano la cultura “una cosa da signorine”, operai del Kentucky e avventori del Moon Dance. Si trovano altri nascondigli quando altre vite si negano o quando altre violenze si tacciono attutendone così la perfidia. E poi altre illusioni nascono quando il sole “affonda rosso e solitario come un dolore sulla terra” e così altre solitudini:
Non era il lavoro, però, che lo tormentava; aveva lavorato per tutta la vita. Era invece colpa di quel paese che si faceva selvaggio ogni giorno di più, così come il fiume che diventava sempre più solitario, gli alberi sempre più spogli, finché alla fine le grandi colline spoglie iniziavano a costeggiare il fiume, come se non avessero fine, a distanze che intorpidivano la mente.
In tutti i tredici racconti di questa raccolta, qualunque sia la vendetta o il nemico o il progetto di vita, suona una strofa che parla di terra, di speranze e di orizzonti. Una strofa che emoziona perché è onesta e chiama la terra hard land e non per questo, tuttavia, la fa sparire dalla sfera dei sogni. È l’ultima strofa di un’epica americana, che – è vero – nasce dalla strada senza eroi, senza illusioni e senza ricchezze eppure non si nega mai la possibilità di sognarne.
Recensione di Marta Ciccolari Micaldi
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