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India da cartolina.
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recensione di Giovannone, G., L'Indice 1997, n. 1
È possibile individuare nella letteratura di viaggio italiana tratti tipici e insieme discriminazioni che la differenzino da altre tradizioni, ad esempio quella anglosassone? Parlando di "Passaggi paesaggi" di Mario Fortunato e "Il viaggiatore sedentario" di Luigi Malerba avevo avanzato tempo fa ("L'Indice", 1994, n. 8) alcune ipotesi provvisorie che i testi qui presentati sembrerebbero confermare.
La produzione italiana si distingue innanzitutto per una vistosa riduzione degli spazi narrativi e descrittivi, per la drastica eliminazione cioè di quelle notazioni aneddotiche, pittoresche, paesaggistiche che caratterizzano, o per dir meglio fondano, la tradizione della letteratura di viaggio così come essa si è venuta configurando in Inghilterra dalla metà del Settecento fino alla seconda guerra mondiale. Le peripezie del viaggiatore, le condizioni materiali del viaggio, gli scorci paesaggistici occupano ben poco spazio nei resoconti degli scrittori italiani che, nella maggior parte dei casi, sembrano prediligere un registro impersonale - l'io narrante è spesso soltanto un tramite tra due culture - e un'insolita complessità di approccio.
Non c'è infatti, in questi libri, lo sguardo ingenuo e superficiale proprio del viaggiatore, disponibile alla scoperta e alla meraviglia. Lo sguardo, anzi, ha un ruolo decisamente marginale, se si esclude forse il testo della Petrignani, l'unico che, per la sua struttura itinerante, è riconducibile senza riserve alla letteratura di viaggio. Ma i luoghi di "Ultima India" - dalla giungla del Periyar all'intollerabile Benares, dal favoloso parco dei templi di Khajuraho alla deludente Bombay, da Pondicherry all'agognato incontro con Sai Baba - sono in realtà tappe simboliche di un viaggio interiore che cerca - e puntualmente trova - i suoi correlativi oggettivi. Le "illuminazioni" che la scrittrice attribuisce all'incontro/scontro "sul campo" tra due culture tanto lontane non si discostano da quel gesto di accettazione, di resa totale che da almeno due secoli costituisce la prevedibile risposta dei viaggiatori occidentali all'India: "Accettare il dharma, abbandonarsi...", "C'è una vertigine estremamente attraente nell'abbandonare la presa, nel lasciarsi spogliare di tutto, nel diventare agnello".
Più interessante è, forse, la rinuncia a raccontare la "vera" India, l'implicito riconoscimento che non è possibile evitare il confronto con le mille stratificazioni culturali - da Kipling a Hesse, da Henri Michaux fino a Pasolini - che hanno creato un'India parallela, un'India dell'immaginario altrettanto reale di quella "vera". Ed è proprio questa rinuncia alla narrazione ingenua, "in presa diretta", questa consapevolezza che raccontare l'India - o New York o Tahiti - significa raccontare gli echi che le infinite rielaborazioni del mito hanno lasciato dentro di noi, un tratto rilevante della letteratura italiana di viaggio.
"Le isole dell'Eden* conferma questa impressione, a partire dalla sua struttura bipartita. Nella prima parte Massimo Dini analizza "le modalità dello sguardo con il quale navigatori, scienziati e scrittori hanno contemplato nei secoli i Campi Elisi dell'emisfero australe", la Polinesia, "apparsa sul grande schermo dell'Occidente con il fascino di un arazzo idilliaco, una sorte di stregante laguna blu". Dini dedica un grande spazio ai navigatori spagnoli del Cinquecento, al capitano Cook, all'ammutinamento del Bounty, a Melville, Stevenson, Gauguin. Avvertendo però come il sogno del paradiso perduto si mescolasse allo sfruttamento economico e alla colonizzazione culturale, e mostrando il lato oscuro dell'Eden australe: la dolcezza dei polinesiani nascondeva un sistema sociale ferocemente gerarchico e in molte isole erano diffuse la schiavitù, i sacrifici umani, il cannibalismo rituale. E tuttavia il mito sembra resistere a qualsiasi tentativo di demistificazione, conservando quasi intatta la sua aura di luogo edenico. La seconda parte infatti - una preziosa guida turistica sul filo della memoria storico-letteraria - si intitola "Un mito infranto?", un interrogativo che Rossella Righetti lascia significativamente senza risposta. L'occidentalizzazione non è un fenomeno generalizzato, e se "Papeete è un brutto biglietto da visita per la Polinesia" e Mururoa è diventata sinistramente famosa, esistono tuttavia nei Mari del Sud infiniti angoli che conservano intatto il loro fascino abbacinante, angoli in cui si incontrano ancora oggi esuli della nostra civiltà che hanno scelto di vivere la loro esistenza all'ombra del sogno che conquistò Stevenson e Gauguin.
L'attenzione all'universo umano più che agli aspetti paesaggistici sembra essere un'altra costante della letteratura di viaggio italiana. Un interesse che diventa esclusivo in "Camminando. Incontri di un viandante", in cui solo il titolo legittima la sua inclusione nel genere, perché il libro si presenta come una raccolta di rapide autobiografie di scrittori, artisti e giornalisti - soprattutto sudamericani - in viaggio, spesso in fuga dai loro tormentati paesi. Ma Pino Cacucci rivendica con forza la sua concezione del viaggio: solo dai racconti dei viandanti incontrati lungo il cammino si scopre l'anima di una terra, non certo dagli "evocativi cumuli di vecchie pietre e panorami stupefacenti".
Più spesso, però, gli scrittori italiani si avvicinano alla realtà umana e sociale attraverso una forte mediazione culturale. Nel bellissimo "Come la luna dietro le nuvole", Carla Vasio indaga le costanti della condizione femminile in Giappone tentando di entrare in sintonia, in simbiosi si sarebbe tentati di dire, con le vicende biografiche, la sensibilità e l'opera letteraria di una delle maggiori scrittrici giapponesi della fine dell'Ottocento, Higuchi Ichiyoî. Una scrittrice che in modo forse inconsapevole ma radicale si ribellò al ruolo decorativo, alla passività, al silenzio che una tradizione millenaria imponeva al "secondo sesso" e i cui condizionamenti sono ancora molto forti nel Giappone di oggi. Anche qui è difficile parlare di letteratura di viaggio in senso stretto. Gli spostamenti nello spazio sono minimi: il museo dedicato alla scrittrice, il quartiere dove visse soffrendo acutamente per la miseria e le umiliazioni, alcune istantanee della Tokyo dei nostri giorni. È un viaggio nel tempo, ma soprattutto in una cultura, in una mentalità, in una lingua che sembrano tanto più inafferrabili quanto più se ne penetrano i misteri. La delicata ma avvincente bellezza di questo viaggio sta proprio nella paziente, rispettosissima capacità di ascolto, nell'incerto procedere verso l'altro, un percorso reso tortuoso dalle interferenze della propria cultura che costringe a continui riaggiustamenti e correzioni di prospettiva. Il libro della Vasio costituisce forse l'esempio migliore di quella complessità che caratterizza il rapporto tra gli scrittori italiani e il viaggio: "Perché so di stare qui a Tokyo con una precisa intenzione: non di sapere che cosa pensare sul Giappone applicando a questa nuova prospettiva le mie capacità di analisi logica, ma piuttosto per capire che cosa non pensare sul Giappone, come applicare un modo di pensiero che ignoro alla sua sbalorditiva diversità e con questo avvicinarmi ad essa con un'approssimazione all'infinito".
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