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Troppo spesso, in questi ultimi tempi, ci siamo imbattuti in scrittori navigati o in one day writers capaci di esibire, con la più sfacciata nonchalance, indigesti polpettoni generati dall'accumulo di materiali inutili. Un accumulo assai familiare al filone trash che ha alimentato molta recente o recentissima narrativa italiana. Un accumulo nutrito, talora, dagli eccessi di realismo ambientale che hanno nuociuto e continuano a nuocere a un genere narrativo sempre più sulla cresta dell'onda: il romanzo storico. Due parole, sopra le altre, potrebbero rappresentare la chiave della revanche di un genere che non molti anni fa sembrava versare disperantemente in uno stato di asfissia: il collezionismo e la discarica, luogo simbolico della selezione sospetta di feticismo monomaniaco il primo, luogo simbolico dell'accumulo, di ogni inservibile accumulo, il secondo. Due parole che, opportunamente coniugate, ci restituiscono quel collezionismo da discarica che sostanzia per l'appunto molti dei romanzi storici ultimamente apparsi in Italia e fuori d'Italia, romanzi fatti di cose e di parole artificiosamente selette per essere, poi, malamente sperperate.
All'insostenibile pesantezza del neoromanzo storico subentra, in quest'ultima prova di Francesca Sanvitale, la sostenibile leggerezza di una vicenda ambientata nell'oggi la quale, attraverso la microstoria di un condominio ricostruita su verbali e altri materiali d'archivio, isola frammenti del ventennio fascista in una sorta di retrospettiva straniante (parola chiave dell'intero romanzo, consumata letteralmente nell'aspirazione al sesso "come straniamento totale" o riassorbita negli interrogativi sulla possibilità che esista "una bellezza straziante dell'essere umano" come nella constatazione che la mostruosità stessa possa apparire senz'altro bella).
Frammenti, soltanto minutissimi frammenti. Perché del passato il protagonista, il quarantacinquenne Giacomo Impronta, "non sa che farsene". Ai libri che potrebbero tramandarlo, e alla biblioteca in grado di contenerli, frutto dell'umana follia di una "costanza archivistica", si dovrebbe anzi appiccare il fuoco. Niente di più lontano dal collezionismo da discarica. Niente di più vicino a un collezionismo di deriva ridotto alla memorizzazione di date, di editori, di nomi pescati in anni di lavoro vissuti a contatto di libri mai veramente letti sul serio. Una prospettiva, nuovamente straniante, che si nutre della linfa inesauribile dell'ambiguità, di cui il volume trasuda. Formulata alla maniera dell'autrice. La quale, evidentemente, sa bene che l'ambiguità è "un fine dell'esistenza", non un mezzo, uno dei tanti, per sfuggire al mondo e a noi stessi; che il racconto della vicenda di Giacomo, ex bombarolo di fede comunista, ex informatore della polizia, trafficante d'armi a riposo, bibliotecario sui generis, è un "racconto inusuale", tanto inusuale da costringerla "a seguire con minuzia assoluta" i suoi orari e le sue giornate "per non perdere di credibilità"; che la realtà vissuta e quella ritratta nei libri possono pericolosamente (o fortunatamente?) sovrapporsi agli occhi di chiunque, "nell'ansia di documentarsi", si sorprenda a retrocedere "a un'adolescenza mai vissuta"; che si può essere, come Rita, un "essere completo", "uomo e donna quasi", o si può giocare, come gioca Giacomo, all'amore a tre senza essere "né maschio, né femmina, anzi le due cose insieme".
Non è la perfezione ad animare la ricerca di Francesca Sanvitale, malata della stessa malattia del suo personaggio (che sostiene di detestare ma dal quale non riesce a separarsi, incollata com'è "ad ogni minuto della sua esistenza incomprensibile"). Non è nemmeno il compimento. E non è, tantomeno, la coerenza (la virtù degli imbecilli, avrebbe detto Wilde). È invece, a voler prendere in prestito il giudizio espresso da William Seitz sull'espressionismo astratto di un Barnett Newman o di Jackson Pollock, quell'impulso che vede prevalere l'espressione sulla perfezione, la vitalità sul compimento, il movimento sulla stasi, l'ignoto sul noto, il velato sul visibile, l'individuale sul collettivo, l'interno sull'esterno. Perché nulla è come appare, nulla possiede realmente l'unicità della sostanza che si vuole rappresentare. Perché il delitto è "alla portata di tutti": la "linea d'orizzonte tra l'omicida e il buon cittadino" è solo "una formalità". Perché la ripetizione dei singoli atti umani volti ad affermare se stessi è, addirittura, "la certificazione di permanenza in vita delle cose".
Anche l'ambiguità, però, che governa saldamente il mondo del protagonista, sembra sfuggire sorprendentemente a se stessa, come era a suo tempo accaduto in quel piccolo capolavoro che era Madre e figlia (Einaudi, 1980). Tutto infatti appare già detto, a chiare lettere, fin dalle prime pagine, secondo i ben ricostruibili modi di una logica del sillogismo che consuma apparentemente così, su quella ambiguità, la sua sottile vendetta.
Ordinare il mondo per disordinare se stessi. Perché Giacomo, nel porre mano all'archivio sulla Costruzione (il caseggiato di dieci scale in cui vive) che lo accompagnerà per tutta la vicenda, dichiara di non sopportare il "disordine esterno" ma, nello stesso tempo, crede che "senza doppiezza, senza un continuo dissociarsi da sé per credere il contrario di ciò che faceva prima, non ci sia veramente vita".
Credere nel contrario di ciò che si è fatto prima per avere il coraggio di vivere del contrario di ciò che si sta apparentemente vivendo. Perché Rita, l'amica-complice-amante trentenne di Giacomo, in quanto legata a lui da un rapporto-accordo fondato sull'impurità della quotidiana menzogna e sull'illusione di succedaneità della figura materna, non respira dell'unico desiderio veramente ambito dall'uomo: il desiderio basico, garantito dall'erezione, che unicamente sono in grado di soddisfare le sortite notturne nei luoghi topici degli incontri tra omosessuali durante le notti capitoline.
Tradire in amore per tradire sempre. Perché per Giacomo, come nel più classico dei transfert, "tradire una persona che gli dava fiducia, comunicare un segreto appena rivelato da un altro, costituivano un impulso eccitante e immediato".
Tradire sempre per essere finalmente liberi. Perché tradire vuol dire essere esonerati "dai banali doveri di vita", non credere "a cause giuste o sbagliate" che siano, non essere costretti a gravare le parole che gli altri vogliono che noi diciamo del peso effettivo dell'idea che esse, in apparenza, si premurano di difendere.
Essere finalmente liberi di ordinare il mondo per disordinare se stessi. Restando quindi come si è, come si è sempre stati. Il cerchio, così, sembra chiudersi. Chi si aspettava i rutilanti effetti speciali del cambiamento dei cambiamenti al quale ci hanno malamente abituato le tornadas dei romanzetti di cassetta ha sbagliato libro: nulla è cambiato, tutto è esattamente come era prima. Ma è veramente così? Non sarà forse che in realtà la vicenda di Giacomo Impronta e della sua compagna, pirandellianamente, non conclude? Non sarà che il regno, il divino regno dell'ambiguità non si è mai visto nemmeno minacciato dall'umano, troppo umano regno governato delle certezze della logica? Se l'arte, "contro qualsiasi logica", senza sforzo apparente, "riesce a sbocciare (...) dal nulla, dalla piatta ottusità delle cose", non graviamo troppo di senso, allora, le vicende narrate da Francesca Sanvitale. Facciamo come fa lei, nell'intervallo tra la prima e la seconda parte del suo romanzo: lasciamo che le cose fluiscano fuori dal nostro controllo, lasciamoci travolgere "da svogliatezza e indifferenza nel trovare nessi e cause", dimentichiamoci della coerenza, consentiamo ai nostri fantasmi interiori, come l'autrice consente ai suoi personaggi, "di andare qua e là a casaccio, senza il nostro aiuto. Perché "persino loro non sono governabili".
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