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Non è solo disincanto, come suggerisce la quarta di copertina. No, non si tratta solo di quello. Si respira aria pirandelliana (nel racconto 'La videoconferenza' mi è accaduto di incontrare lo sguardo di Vitangelo Moscarda, il caro vecchio Gengè!). Per la freschezza del discorso, per la familiarità che attira il lettore facendolo sentire a suo agio mentre zigzaga tra le vicende narrate, offrendogli - ed è questa la capacità a me più cara perché è l'essenza che afferma l'autorevolezza dello scrittore - quella rara e favorevole impressione di poter condividere con lui l'accattivante prospettiva di una complicità senza tempo e infine quella ormai chimerica - perché sempre più inesistente negli scrittori moderni - naturalezza di scrittura. "Le frasi dei grandi scrittori, ad esempio, spesso sono frasi che avresti potuto dire anche tu, che erano alla tua portata, ma che tu non sei riuscito a dire, e qualcuno lo ha fatto al posto tuo, le ha scritte per te, con la mano che tu non sei riuscito ad usare" (Claudio Giovanardi, Tutto così regolare tutto così prevedibile). L'autore non solo si ferma ad osservare il mondo che gli sta attorno, fa di più: egli si osserva all'interno del mondo. Giovanardi insegna che la quotidianità, sebbene possa apparire noiosa è comunque desiderata, perché costituisce una certezza: la certezza di essere vivi. La regolarità, la prevedibilità rappresenta una sicurezza, lo sanno bene gli esuli, i migranti che vengono privati della quotidiana carezza del caffè caldo appena svegli o del tram carico di pendolari che ogni giorno si rincorre per andare a lavoro. Privati dei nostri gesti, delle nostre abitudini, della nostra quotidianità che spesso accusiamo di essere banale, saremmo perduti, perché si oscurerebbe la nostra identità naturale. Scrive il professore: "Ben presto cominciavano i piccoli riti, i soliti, necessari per confermarci saldi nei ruoli di ognuno, necessari per riconoscerci, per amarci, per sentirci vivi".
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