Poco conosciuto, ma non meno distruttivo per l’identità delle persone che lo praticano e soprattutto per chi ne subisce gli effetti, è il turismo sociale. Il termine è usato soprattutto con riferimento a programmi e aspirazioni tendenti a un miglioramento delle condizioni di vita delle società povere del Terzo mondo, prima spogliate dal colonialismo eurocentrico, poi dalle multinazionali il cui capitale infinito di cui dispongono ha continuato a produrre gli stessi effetti del saccheggio degli europei nel XIX e XX secolo. In questo caso si constata, da un lato, una critica, anche severa, alle ONG che nel Mediterraneo si occupano di salvare migliaia di migranti, in maggioranza giovani che privano il loro Paese nativo di forze ed energie indispensabili per la sua riabilitazione; dall’altro, l’insicurezza e l’incertezza, in chi sceglie di praticare il turismo sociale, che suscita la riflessione, indipendentemente se profonda o superficiale, sul nostro stato di povertà e miseria, quando da noi nessuno è venuto, con sinceri propositi umanitari, ad aiutarci. Il turismo dei Grand Tours, degli alberghi più o meno di lusso, ha trasformato la nostra gente, in particolare quella delle valli alpine, da liberi contadini e artigiani in riverenti e servili camerieri, sempre pronti a inchinarsi al cospetto del signore straniero che elargisce una mancia. Talvolta per frustrazione, o per un’urgente voglia di rivalsa, il cameriere servile e deferente decide di ribaltare la situazione. A sua volta, raggiunto il benessere, anche l’italiano svizzero si trasforma in turista sociale. Ha interessi culturali e politici più o meno legittimi e fondati, tuttavia sufficienti a giustificare il sottile piacere che la generosità verso i poveri emana, come se fosse un profumo. È, in generale, un dozzinale sentimento di auto-riconoscenza per un presunto bene elargito a terzi di chi mai o raramente percepisce la dedizione come frutto dell’amicizia o dell’amore.
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