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Personaggio di spicco nell'ultima repubblica fiorentina e acerrimo avversario dei Medici, Bartolomeo Cavalcanti si impegnò intensamente nell'attività diplomatica fra il 1527 e il 1530. Proprio la tradizione civica della Firenze quattrocentesca, quella gloriosamente legata alla cultura umanistica nel periodo precedente l'ascesa di Cosimo il Vecchio, opera in profondità nei suoi scritti: composti negli anni dell'esilio fra il 1537 e la morte nel 1562, sempre elaborati in simbiosi con le fonti classiche. Ciò vale per la Retorica, edita nel 1559 e ispirata all'antica concezione repubblicana dell'oratoria come strumento pubblico, tecnica non solo letteraria ma posta con entusiasmo al servizio della cosa pubblica. Analoga è l'intenzione dei Trattati, pubblicati postumi nel 1571 e ora chiosati con perizia da Enrica Fabbri: anche queste pagine, infatti, nate in forma di commento alla Politica aristotelica per marcare il proprio distacco dalla cultura platonizzante medicea, vogliono essere un'indagine pratica sulle possibilità di realizzazione di un governo repubblicano. Non a caso, dietro simili esperienze, campeggia l'ombra degli Orti Oricellari, ovvero delle discussioni politiche fiorentine di primo Cinquecento, con il magnifico esempio machiavelliano dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. L'erudita analisi sulle forme di governo non è allora un puro esercizio erudito (come non lo sono i volgarizzamenti polibiani dell'autore) ma un tentativo di attualizzare gli autori greci mettendoli al servizio di precise ipotesi concrete. Le opere di Cavalcanti, in tal senso, fanno pienamente parte della cultura repubblicana del fuoriuscitismo fiorentino, e bene ha fatto la commentatrice dei Trattati a dare largo spazio a questo problema storiografico nella sua introduzione. Rinaldo Rinaldi
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