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Il libro di Pallante non si limita a esaminare la "tragedia delle foibe", ma ricostruisce, con il contributo di una ricca documentazione, la complessa vicenda dei rapporti tra Italia e Jugoslavia e tra i partiti comunisti dei due paesi nell'arco secolo scorso.
Mentre sul piano diplomatico gli accordi di Rapallo (1920) e di Roma (1924) aprivano infatti la strada alla sistematica opera di snazionalizzazione degli sloveni da parte del regime fascista, tra le due guerre si manifestava, da parte della classe operaia giuliana, un'istanza rivoluzionaria che faceva premio sulla questione nazionale. Gli accordi dell'aprile 1934 tra i partiti comunisti italiano, austriaco e jugoslavo confermavano tale principio. L'evoluzione delle relazioni internazionali avrebbe determinato l'acuirsi dei contrasti tra i comunisti italiani e jugoslavi, all'indomani dello scoppio del secondo conflitto mondiale, con l'aggressione tedesca alla Jugoslavia (6 aprile 1941) e con la spartizione del paese tra Italia e Germania. Nel litorale Adriatico alla repressione fascista e nazista si contrapponeva l'avvio della resistenza jugoslava, nella quale Tito avrebbe assunto posizioni contrastanti con le direttive di Stalin e Dimitrov. In tale quadro si colloca la "jacquerie" delle popolazioni contadine dell'Istria, culminata con le foibe del 1943: con un eccesso di non condivisibile storicismo, Pallante ritiene "forse inevitabile che (
) una sommaria giustizia popolare si rivolgesse contro i responsabili della precedente oppressione".
I contrasti nazionali costituirono il principale motivo di dissenso tra la resistenza italiana e jugoslava. Su tale nodo l'autore compie un'attenta ricognizione, che conferma le recenti acquisizioni storiografiche: dall'orientamento filojugoslavo del movimento partigiano nel Nord e della classe operaia giuliana all'intransigente volontà annessionistica di Tito, di Kardelj e del partito comunista sloveno; dalle ambiguità della posizione assunta da Togliatti nell'ottobre '44 agli aspetti oscuri della vicenda di Vincenzo Bianco. Il dramma delle foibe giuliane del maggio '45, dopo l'occupazione di Trieste da parte delle truppe jugoslave, viene indagato nel tentativo di comprendere senza giustificare. Analizzando le violenze di quei giorni, in cui si fondevano "la reazione alla snazionalizzazione, l'odio contro i fascisti, le rivendicazioni nazionali, la criminalità comune, le vendette personali", Pallante giunge alla conclusione che la difficile sintesi tra patria e internazionalismo finì con lo sfociare nel più acceso nazionalismo. Certo, i nemici non erano gli italiani in quanto tali, ma tutti coloro che si opponevano alla costruzione del socialismo; e del resto, gli operai monfalconesi, che scelsero di aderire al nuovo stato jugoslavo, "erano tutti antiitaliani?", si chiede provocatoriamente l'autore.
Ma le domande e i distinguo non impediscono a Pallante di rilevare come per decenni sulle foibe sia sceso un oblio colpevole. E se resta aperto il tema del nesso tra identità nazionale e internazionalismo, nondimeno è compito degli studiosi porre fine alla rimozione che ha accomunato "ex comunisti ed ex fascisti". Un obiettivo che l'autore giudica irrinunciabile, al di fuori di ogni velleità propagandistica e della ricerca di un'irenica unità della memoria del Novecento italiano.
Marco Galeazzi
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