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recensione di Boitani, P., L'Indice 1989, n. 5
C'è un uomo che siede in una stanza, solo, in una notte di neve illuminata dalla luna. Nel camino, un fuoco un po' smorzato sparge attorno la sua tinta discreta, con barlumi rossastri sul soffitto e sui muri, e un luccichio riflesso dal lustro delle suppellettili. Questa luce più calda si mischia alla fredda spiritualità dei raggi lunari e sembra infondere un cuore alle forme evocate dalla fantasia. Le muta da immagini di neve in creature. Nelle profondità di uno specchio, si scorgono il rosso più fioco delle braci semispente, i bianchi raggi della luna sull'impiantito, e una ripetizione degli sprazzi di luce e di ombre, come su di un piano più lontano dal reale e vicino al fantastico. L'uomo solo non può fare a meno di sognare cose strane e di farle sembrar verosimili, insomma di scrivere 'romances'. Siamo alla fine degli anni quaranta dell'Ottocento, e quel signore solitario al buio, nel riflesso del fuoco e dello specchio, ha tutta l'aria di essere Nathaniel Hawthorne che, nella Dogana di Salem, ritrova un antico manoscritto e brandelli di un panno scarlatto a forma della lettera A. "La Lettera Scarlatta", un "romanzo storico" ambientato nel Seicento, sta prendendo forma sotto i nostri occhi.
Di quanti richiami è capace una pagina come questa? Essa prefigura la "figura nel tappeto" di Henry James, certo, ma rievoca anche il Manzoni che, dieci anni prima, licenziava la versione definitiva del suo "romanzo" storico-secentesco fingendo, anche lui, il manoscritto. Di tal genere, se non tali appunto, saranno i pensieri di chi avrà terminato di leggere il nuovo, bellissimo libro di Giovanni Macchia. Perché il passo di Hawthorne può anche esser preso ad immagine dell'oggetto di questi "saggi" e del processo della fantasia che ad essi sovrintende. Ché quanto al primo, esso è la brace semispenta nel buio, quanto a dire il bagliore rossastro, cardinalizio (di Mazzarino e di Retz) nella notte del Seicento inaugurata ben prima dal Tasso. Quanto al secondo, esso consiste nei riverberi che l'oscurità e il fuoco proiettano sul pavimento, dove, per dirla con Hawthorne, il Vero e il Fantastico si incontrano, dove il Conte del Sagrato diviene l'Innominato. E più ancora: perché sempre di riflesso, indirettamente, Macchia ci mostra le sue figure, vere o romanzesche: Don Giovanni attraverso Casanova, Mazzarino attraverso un "Breviario" che non si sa se sia suo, Retz attraverso il Settecento, Fra Cristoforo attraverso il Commendatore.
Prendiamo Mazzarino: "lo spirito" dice Benjamin del Seicento, "si mostra nel potere:.. è la facoltà di esercitare la dittatura": è il messaggio di Iago e di Macbeth, ma è anche quello che l'"ombra" di Mazzarino lascia nel "Breviario". Eppure, anche Mazzarino, questo "inafferrabile Proteo", è un uomo, in preda alla malinconia, alla solitudine, capace di affrontare con dolore la fine di un'amicizia. Ma è un uomo che sente di dover vivere nel pericolo permanente, in mezzo ad un'umanità "malata di peste". Ed eccolo, allora, farsi attore nel gran teatro della dissimulazione, recitare "una minuscola e torbida e implacabile commedia umana": eccolo obbedire all'impulso e all'imperativo della metamorfosi. Mazzarino, questo Convitato di Pietra della politica europea, questo monumento alla Ineluttabile Pesantezza del Sopravvivere (e del Governare), è capace di saltare più in fretta del lacchè per aprire la porta della carrozza alla Regina, come lo ricorda Retz: balza come Arlecchino, come il Cavalcanti del Boccaccio - diventa, paradossalmente, la Leggerezza di Calvino.
Se Mazzarino fa del teatro, il suo avversario, Retz, trasforma la storia in romanzo: domina, in lui, la vita come energia, vibra il "diritto all'insurrezione" cromwelliano, splende il "criminale sublime". Attorno a sé Retz vede, motore delle azioni umane, la paura, e si scaglia contro l'incertezza, l'irresolutezza , "l'immobilità da cui è sorpreso lo spirito nel momento fatale della scelta". Eppure, proprio lui è come congelato, impietrito, un giorno, dal caso, nell'"immobilità dei pugnali". Alla seduta del Parlamento del 21 agosto 1651 il cardinale di Retz si presenta col pugnale nascosto sotto la veste, come tutti. "La Rochefoucauld riesce ad immobilizzarlo stringendogli il collo tra i battenti di una porta e incitando Coligny e Ricousse, seguaci di Condé, a finirlo". Ma qualcuno grida, "'Schelm' (briccone, nel gergo dei lanzichenecchi) chi non rimetterà il pugnale nel fodero". I pugnali si immobilizzano - "per un caso meraviglioso che 'forse nella storia non ha mai avuto l'uguale'". Ed ecco così che la storia diventa, è romanzo: la verosimiglianza di Aristotele c di Racine, della tragedia, dà luogo all'imprevisto, la 'tyche' rompe l'Esattezza con la Rapidità dei pugnali fermi a mezzaria.
Si può leggere Macchia seguendo Calvino? Fuori dai "Mémoires", Retz sopravvive a se stesso e al suo secolo. Dentro alle "Lezioni Americane", abbiamo raggiunto il capitolo sulla Visibilità. Ora, questa è una dote precipua di Macchia, che i foschi scenari secenteschi sa dipingere, come Stendhal, con una "pennellata di buio". Ma ancor più visibile risulta, nel suo libro, l'"oscura necessità" per dirla con Hawthorne, della trama, per cui dallo 'steganos' di Mazzarino si passa al "segreto" di Graci n, agli 'arcana imperii', alle spie (a Polonio), a Canetti, al silenzio del potere e poi, come fosse ineluttabile, alla parola "data all'uomo per 'nascondere' il pensiero", che è la massima attribuita da Stendhal a Malagrida, il gesuita giustiziato dall'Inquisizione per aver simulato la santità e l'esperienza mistica con la menzogna.
È dal "segreto abissale", continua Macchia nel suo sapiente concatenamento saggistico-narrativo, che nasce il personaggio del romanzo moderno; nell'oscurità che accomuna Graci n e Pascal l'uomo si fascia di buio, cioè d'un cammino che sempre deve interrogarsi - da quel "resto" che, secondo il Principe del Seicento, Amleto, deve rimanere "silenzio", prende forma un narrare senza fine. Invano Casanova, il quale assiste alla prima del "Don Giovanni" di Mozart a Praga, riscrive il grande se stesso del II Atto. Per lui, che non solo burla, come Don Giovanni, le donne, ma ha burlato i Piombi di Venezia, che vuole gettare sul piatto, come sfida suprema, delle "Memorie" impenitenti e oltraggiose, Leporello non deve piangere: deve divertire. Il servo, simulacro e ombra del padrone, suo travestimento, deve squagliarsela ridendo. Ma Mozart e Da Ponte hanno già fatto il passo decisivo: hanno mescolato il tragico e il comico in un nuovo sublime.
Davanti al molteplice, metamorfotico Don Giovanni già la mensa è preparata: ci sono i musicanti, c'è il fagiano, c'è un eccellente marzimino, c'è una tavola che immaginiamo come quella di Mazzarino, "fonti correnti ad allagar le nevi". Con barbaro appetito, con bocconi da gigante, Don Giovanni dà inizio alla sua Cena di Trimalcione, deliberatamente trasgredendo le leggi che regolano il Simposio da Platone a Cristo, da Cipriano a Dante, da Lutero a Giordano Bruno. Ma non ha fatto i conti col morto: che pure ha invitato al desinare. Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste: il morto ritorna in vita, la statua diviene personaggio. Don Giovanni, che a dispetto dei suoi travestimenti rimane sempre lo stesso, il "rappresentante della colpa teologica", non può essere liquidato che dal Commendatore. La Cena diviene veramente Ultima. Per quanto tempo, però? Perché nel mito, Don Giovanni occupa sempre più posto, il Convitato di Pietra sempre di meno, e il pubblico non riesce più a capire se stia assistendo "al trionfo della morte oppure ad un farraginoso, allettante trionfo della vita".
Questa "feconda ambiguità" la conosce anche Manzoni, i cui "Promessi Sposi" sono un "romanzo di morte", percorso da una vena di "torbido erotismo"; se da una parte stanno Don Giovanni, Zerlina e Masetto, dall'altra ci sono Don Rodrigo, Lucia e Renzo. Se di là c'è il Commendatore, di qua c'è Fra Cristoforo, statuario giudice di Don Rodrigo durante il Convito nel suo maniero. Non basta questo, tuttavia, a trasformare la storia in romanzo. Se quella era, nel Seicento, "collazione del tutto" come riconciliare il "mondo malato" di John Donne con il "lutto" della singola creatura? Manzoni veniva dalla tragedia, dalla lirica, dall'esercizio storiografico. Li mise a frutto: moltiplicò il coro tragico ("Dagli atri muscosi") nell'infinita voce del popolo dei vinti, isolò lo stasimo lirico ("Addio, monti sorgenti" nel tremolare, hawthorniano, della luna), studiò i documenti e... reinventò la "digressione" nutrendosi di saggisti e moralisti, e del "Tristram Shandy" di Sterne. Così, il romanzo si gonfiava dilatando come un torrente di lava sul "gran secolo da romanzo", diveniva, in una digressività più che omerica, "epopea negativa", genere misto, discussione di se stesso, Processo e Giudizio: era "Fermo e Lucia". Iniziò, dopo, la "potatura", il lavoro che, tagliando, doveva ridurre la "Historia" in 'mythos'. Ma rimase, dopo i "Promessi Sposi" - prima digressione, poi appendice, infine opuscolo - la "Colonna Infame" con la sua nera violenza. Ristette, dentro il romanzo, l'ombra dei due processi, a Gertrude e agli untori: l'eros, e il problema della propagazione del male. Nella "zona più buia" di quest'Opera al Nero c'erano la paura, la dissimulazione, la crudeltà e la riconoscenza verso la crudeltà, una autunnale, putrescente natura, la peste che spazza via tutto (Don Rodrigo, ma anche Fra Cristoforo) seppur per tutto lasciar rigenerare.
È in questo primo capitolo, a tratti di vera "oscura grandiosità biblica", che Macchia, alla faccia delle polemiche sui "Promessi Sposi" nella scuola, ricrea con straordinario vigore le braci semispente, i bagliori rossastri, i riflessi manzoniani che poi daranno il buio a Mazzarino, Retz, Graci n, Malagrida e Don Giovanni. Ché se nel gran libro del Manzoni c'è una Provvidenza che conferisce ordine "irrazionale e divino" all'apparente incoerenza, c'è anche, e c'è dietro il grande libello di Macchia, un Altro, virgulto di Fiori del Male, il quale, come quello che campeggia nel secentesco Milton, domina la "darkness visible", la visibile oscurità, il buio trasparente che, giusta il Libro di Giobbe, è il paese ultimo verso il quale siamo sempre, tuttora, in cammino.
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