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In Tiqqun ritroviamo due orizzonti, da una parte quello particolare del popolo ebraico, dall'altra il destino della cultura occidentale e, più in generale, di tutta l'umanità, e non poteva essere diversamente, dal momento che la Shoah non ha solo sterminato 6 milioni di ebrei, ma anche interrotto la continuità della cultura occidentale, le sue filosofie e persino la religione cristiana che «dovrebbe chiedersi se è sopravvissuta all'olocausto, visto che non ha fatto nulla per impedirlo». Tiqqun non è un'opera sul pensiero ebraico, ma un atto di riparazione, di conseguenza non poteva occuparsi dell'ebraismo senza essere innanzitutto un libro sul pensiero filosofico, poiché lo stupore da cui nasce la filosofia è stato trasformato in orrore davanti ad un crimine contro il quale sembrava umanamente impossibile resistere, ragion per cui solo lo stupore nei confronti delle vittime che invece seppero resistergli, avrebbe potuto guarire quell'orrore. «Il fatto che oggi esista ancora una Gerusalemme ebraica di carne e di sangue è la migliore conferma che, a dispetto di Hitler, la vita per gli ebrei non si è fermata». Lo stesso Fackenheim tornerà a Gerusalemme per suggellare, attraverso l'assunzione della cittadinanza ebraica, quello che aveva sostenuto nelle sue opere. Questa è la tesi principale dell'opera, una tesi che lancia un messaggio forte, e cioè la convinzione che il futuro, non solo degli ebrei, ma del mondo intero, passi attraverso una presa di coscienza radicale, un ripensamento della cultura occidentale, indispensabile per compiere una riparazione di quella frattura storica, di quel trauma che è stato la shoah. È un'opera che ti emoziona quando non te lo aspetti e che, malgrado il terrore nazista delle selezioni mengeliane abbia distrutto per sempre lo yom kippur delle vittime, attraverso il 614° precetto, ci sfida ancora a sperare, perché, al contrario, abbandonarsi alla disperazione, significherebbe concedere ad Hitler una vittoria postuma.
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