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Con un linguaggio semplice e diretto, attraverso brevi capitoli marcati dalle tessere dell'alfabetiere ben note a chi ha frequentato le elementari in tempi non recenti, Giuliano Corà racconta la sua esperienza di scuola e propone al lettore numerosi spunti di riflessione sul lavoro dell'insegnante. Qualcuno l'ha definito una missione, altri un'arte e, in ogni caso, "nessuno potrebbe sopportare 'per lavoro' la presenza di venti o venticinque affarini urlanti, che ti tormentano continuamente coi bisogni più assurdi". Comunque, se l'insegnamento non è un lavoro, perché "non significa mettersi in cattedra, imporre con metodi più o meno terroristici il silenzio, aprire la bocca e trasmettere (
) una serie di nozioni senz'anima", subito balza in primo piano la necessità fondamentale di impegnarsi nella relazione fortemente affettiva (accettando, fra l'altro, che un allievo si alzi ripetutamente dal banco per dichiarare il suo amore al maestro, come si evince dal titolo del volume) e di rinnegare quella sistematica mortificazione che costituiva uno strumento tipico della scuola tradizionale. Contro quello che Corà definisce "il potere delle lame rotanti" vale il sapersi abbassare, il farsi piccolo dell'insegnante, che coincide con la capacità di sapersi innalzare all'altezza dei bambini, inattingibile per gli adulti: ecco il maestro in cortile, intento a scambiare (stando nei tempi concessi dall'intervallo) le sorprese dell'ovetto Kinder, di cui è un appassionato collezionista, ed eccolo ancora mentre scombina, giocando, i capisaldi della valutazione (quella scala numerica da 0 a 10 variamente usata a scuola, anche nelle sue più assurde declinazioni): "'Quanto mi dai maestro?'. 'Quattordici'. 'Ma no quattordici!'. 'Allora settantacinque'. 'Ma nooo!'. 'Non ti va bene nemmeno settantacinque? Allora ti do diciotto sotto zero'".
Un atteggiamento non dissimile da quello del poeta Caproni quando fingeva, secondo il racconto di Cerami, di rischiare il licenziamento da parte del direttore a causa della propria ignoranza. L'immagine di uno dei più grandi poeti contemporanei italiani (ma per i suoi allievi era solo "il maestro"), disperato per il fatto di non saper misurare la lavagna della classe, è veramente illuminante: un bambino si alza, suggerisce di moltiplicare la base per altezza, prende in mano la situazione e soccorre l'insegnante. Ecco il ribaltamento creativo del ruolo, così gravido di ricadute positive nel processo dell'apprendimento e che (al contrario di quello che potrebbe sembrare) va nella direzione di un rafforzamento del ruolo e dell'autorevolezza di chi insegna.
Corà usa gli stessi espedienti che non appartengono a nessun codice pedagogico e sarebbero il motivo della disapprovazione di più di una direzione didattica. Nel bellissimo libro Caproni maestro (a cura di Marcella Bacigalupi e Piero Fossati, il melangolo, 2010), a cui è impossibile non pensare leggendo il volume di Corà, si racconta che il maestro-poeta portava in classe il trenino Rivarossi, felice come un bambino, e distribuiva dolcetti come premio. Corà rincorre lo stesso principio per cui piacere di stare in classe e gioco costituiscono i requisiti per il superamento di ogni difficoltà. Del resto, racconta l'autore parlando di sé nel capitolo It's a long way to Tipperary, anche il percorso che ha portato il maestro in cattedra è stato accidentato e non lineare, e ogni errore è comunque interessante e pieno di senso.
Altre le insensatezze che l'autore addita all'attenzione del lettore: l'effetto soporifero dei collegi docenti, l'abbandono di Lucy, la bambina ghanese in attesa della certificazione alla quale vengono sottratte attenzione e risorse: "Nessuno avrà del tempo per lei e lei continuerà a riempire i quaderni di stupidaggini e a immusonirsi sempre di più. Ma in fondo chissenefrega di Lucy: 'Che 'i torna a casa sua a magnar banane', direbbero in quel comune della provincia di Vicenza dove qualche tempo fa hanno negato la mensa ai figli dei poveracci che non potevano pagarsela, e dove poi hanno inserito il dialetto veneto tra le lingue che si possono usare in Consiglio comunale. Così si fa cultura".
Meno amara e più divertente, nel quadro complessivo della nuova ingerenza genitoriale nel sistema scolastico, la classificazione dei genitori inventata dall'autore: accanto al gn (genitore normale), c'è il ggm (genitore Giuseppe e Maria), il genitore convinto di aver prodotto il miglior bambino del creato: "Spesso la prima visita del ggm avviene il primo giorno di scuola, all'uscita. Rimira la creatura, e poi l'abbraccia, ma con quel delicato e timoroso rispetto che naturalmente si riserva a ciò che ci è superiore. Poi vi fissa. Non vi chiede niente ancora non vi conosce, non si fida ma tuttavia vi scruta: cerca nel vostro sguardo il bagliore dell'avvenuta illuminazione. Non trovandolo se ne va, Bambinello per mano: spesso gli uomini sono ottusi di fronte al Divino, ci vuol pazienza". Ma forse il capitolo più toccante è quello contrassegnato dalla tessera "St" di stella e intitolato Il vagabondo del Dharma: vi si racconta la storia di Vitale, che salta fuori da una pizzeria e riconosce il suo maestro dopo tanti anni: a partire da quell'incontro si snoda una lunga amicizia fatta di lettere, chiacchiere, libri. Difficile immaginare qualcosa di più bello di questo frutto tardivo di un lavoro-non lavoro, che forse un'arte non è e non gode di nessun riconoscimento economico e sociale, ma sicuramente ha una funzione e un senso nel mondo degli umani.
Monica Bardi
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