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Tutti i formati ed edizioni
Anno edizione: 2000
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Powell, Dawn, The Golden Spur, Fazi, 2000
Page, Tim, Dawn Powell: una biografia, Fazi, 2000
recensioni di Rognoni, F. L'Indice del 2000, n. 12
Negli Stati Uniti, anzi a New York, Dawn Powell (1896-1965) è una scrittrice di culto; e con sacerdoti di qualità come Gore Vidal e John Updike. Quindi che The Golden Spur - suo ultimo romanzo, ma il primo a uscire qui da noi - mi abbia lasciato piuttosto freddo, non significa granché: la prossima volta potrei farmi sorprendere sulla via di Damasco e, rimontando a cavallo, contarmi fra i suoi adepti!
Ma per ora quasi m'appassiona di più la sua vita, ben ricostruita da Tim Page: dall'infanzia in una cittadina dell'Ohio, il padre alcolizzato, i guai con la matrigna crudele ecc., all'approdo a Manhattan e - da allora - l'indefessa fedeltà ai liberi costumi del Greenwich Village. E più del Golden Spur (che però ho letto solo in traduzione), m'ha interessato spigolare i diari, questi sì bellissimi, e - come racconta Page (che li ha curati nel 1995) - la sua opera in realtà più di successo: dove agli sketch di scene di romanzo s'alternano "bozzetti perfettamente autonomi, istantanee di una realtà lontana, vivida e vitale", e anche annotazioni francamente banali - "e tuttavia, proprio perché le banalità di ieri sono così fugaci e rapidamente dimenticate, esiste un arcano piacere nell'ascoltare, insieme a Dawn Powell, una conversazione che ebbe luogo nel bagno di un locale notturno mezzo secolo fa, recarsi in cima all'Empire State Building quando era nuovissimo, spiare una festa cosmopolita a Manhattan nel bel mezzo della Grande Depressione" (Page).
Anche i migliori aperçus sull'arte del romanzo li si trova nei diari. Come in questo appunto del 2 giugno 1962 (non citato da Page), di sapore domesticamente neoplatonico: "Ho deciso che la mia idea di fondo è che c'è un solo personaggio, un A. gigante che si sfoglia come un carciofo in diversi personaggi - perché ognuno non è che uno stato d'animo o possibilità di quello di fondo, e un romanziere illumina una sola striscia del carciofo. Nello Spur, come altrove, ogni personaggio rappresenta l'eroe in un altro momento - in un'altra situazione - in circostanze differenti. Il frutto si apre, sembra diverse persone, poi si richiude nell'Uno". Che è una descrizione davvero eccellente del tutto e niente che avviene in The Golden Spur, e rende giustizia anche a quella "spinosità" del libro, che in realtà è propria di tutti gli scrittori satirici - come il grande Evelyn Waugh, o Muriel Spark, cui già Edmund Wilson, recensendo il romanzo a suo tempo sul "New Yorker", aveva accostato Dawn Powell.
Come in molti altri suoi libri (ne dà conto Gore Vidal nel bel saggio stampato in appendice), anche il "carciofone" di The Golden Spur è un belloccio sempliciotto di campagna (dell'Ohio) che arriva a Manhattan a cercare se stesso: cioè, nel caso specifico, l'uomo sconosciuto (e - Jonathan lo sente e si sbaglia - di gran successo...) con cui la madre ormai defunta l'avrebbe concepito in una giovanile parentesi bohémienne. L'intreccio, comunque, non è che un pretesto per stendere il più ampio affresco di un Village primi anni sessanta, popolato d'artisti e scrittori più o meno da strapaz-zo (ma ci sono anche parodie
di Hemingway e Peggy Guggenheim), yuppie ante litteram, e donnine che non si fanno pregare, anzi rimorchiano loro ("Le donne di città erano meravigliose, stabilì, però molto strane. Le sentiva discutere sui meriti relativi dei loro diaframmi ed ebbe il buon senso di capire che non parlavano di canto"). Un po' troppo lungo, il romanzo è un susseguirsi di scene e schermaglie, tutte piuttosto divertenti in sé, ma un po' tediose nell'insieme - forse in conseguenza di un arte fin troppo sofisticata, che non cerca la battuta memorabile, così sicura d'averla già trovata per strada. Come in questa rivelazione folgorante (ma quasi non si vede, a metà paragrafo...), che suggella il gran successo di una terapia psicoanalitica: "Erano i fatti a sbagliarsi".
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