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Tutti i formati ed edizioni
Bongiovanni, Bruno, Cultura e fascismo, 2000
d'Orsi, Angelo, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, 2000
Mazzoleni, Oscar, Franco Antonicelli. Cultura e politica, Rosenberg & Sellier , 1998
Goetz, Helmut, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia , 2000
Liucci, Raffaele, La tentazione della "casa in collina". Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, Unicopli, 1999
Vigorelli, Amedeo (a cura di) \ Zanantoni, Marzio (a cura di) , La filosofia italiana di fronte al fascismo. Gli anni Trenta: contrasti e trasformazioni, Unicopli, 2000
Romana Morelli, Francesca (a cura di), Un legislatore per l'arte. Cipriano Efisio Oppo. Scritti di critica e politica dell'arte 1915-1943, De Luca, 2000
Longo, Gisella, L'istituto Nazionale Fascista di Cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, Pellicani, 2000
Pedo, Alessia, La cultura del totalitarismo imperfetto. Il dizionario di politica del Partito Nazionale Fascista (1940), Unicopli, 2000
segnalato in rassegna bibliografica di Bongiovanni, B. L'Indice del 2000, n. 12
Le discussioni sui controversi rapporti tra cultura e fascismo, originate da una esuberante produzione editoriale e surriscaldate da un seguito alluvionale di interventi giornalistici, sono state, nell'anno che si sta concludendo, numerose e qualche volta strumentalmente fuorvianti. All'inizio di tutto vi è stato il bel libro di Angelo d'Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, pp. 378, Lit 38.000, Einaudi, Torino 2000. Si tratta di una ricostruzione intelligente e filologicamente minuziosa, oltre che già ben nota agli studiosi: d'Orsi in vent'anni ha infatti disseminato i suoi interventi in riviste, miscellanee, atti di convegni, opere complessive. Il libro ha del resto a che fare con una città, Torino, dove diverse e straordinarie presenze hanno impresso all'intera storia culturale italiana della prima metà del secolo scorso un marchio che si è rivelato indelebile, tanto che la fisionomia intellettuale della città è stata considerata, fuori Torino, talvolta un po' supponente : di qui una certa irritazione, qualche mal digerito complesso d'inferiorità e il liberatorio e francamente troppo scoperto grido di soddisfazione fatto prorompere nell'articolo di fondo scritto per il "Corriere", sul libro di d'Orsi, da Indro Montanelli.
Nel volume non manca comunque nulla: vi sono i grandi maestri della stagione positivistica (da Cognetti De Martiis a Graf), i loro celeberrimi allievi, nani sulle spalle di giganti, e qualche volta giganti sulle spalle di nani, la civiltà dei produttori (cui appartengono Luigi Einaudi e i giovani de "L'Ordine Nuovo"), la fantastica e abbacinante meteora di Gobetti, la stagione "neovociana" delle riviste (Torino che eredita Firenze), i cattolici "sociali" e "liberali" (si pensi a Frassati), i giornali e i giornalisti, gli editori (non solo Einaudi, ma anche Frassinelli, Utet, Bocca, ecc.), gli artisti, gli architetti, i mecenati, e poi i non molti fascisti veri e propri presenti nel mondo della cultura: non alludo ai conformisti (magari intermittenti) per quieto vivere, e neppure al nicodemismo di chi ha un atteggiamento esteriore (peraltro non entusiastico) diverso dal convincimento interiore, ma ai quasi sempre piuttosto rozzi - nel capoluogo piemontese - fascisti convinti e devoti. Dalla lettura del libro, giocato senza alcuna smania scandalistica sino all'ultimo capitolo, si ricava che in una città come Torino, e in presenza di un totalitarismo notoriamente imperfetto, la cultura, per il suo stesso radicamento diffuso, per la sua stessa dimensione orgogliosamente "alta" e talvolta aristocraticamente e implacabilmente "altezzosa", pur con qualche evidente cedimento, e forse proprio per questo inevitabile "entrismo" di fatto, fu tra i fattori che impedirono al fascismo-regime, a mal partito su questo terreno, di diventare appunto pienamente totalitario, e di far dilagare in tutti gli interstizi della società, disintegrando la residua autonomia dell'intelligenza, l' evidentissima e permanentemente invasiva anima a tutto tondo plebea dei ceti medi emergenti fascistizzati, un'anima tuttora (pur trasformatissima) molecolarmente presente in Italia, un'anima cioè strapaesana e provinciale più che "nazionale", anti-intellettualistica, virilistica, diffidente verso ogni forma di cultura, magari insieme cattolica e puttaniera, sensibile al culto mistico e insieme erotico del capo, nonché disponibile alle liturgie plebiscitaristiche di massa. A Torino, sicuramente, qualche intellettuale, per esigenze di carriera, per ragioni di famiglia, per stanchezza, o per altri motivi, ebbe momenti di sbandamento. La cultura nel suo insieme, soprattutto quella "alta", no, o assai poco. Ed è questo quel che conta. Ed è soprattutto questo quel che dal libro di d'Orsi emerge.
Nell'ultimissimo scorcio dell'ultimo capitolo (due pagine e mezza), tuttavia, vi è una quasi improvvisa lacerazione del discorso storiografico e, sul terreno valutativo, uno scatto moralistico in gran parte incongruo, quasi una lamentatio in merito al fatto che l'oggetto d'amore (la cultura torinese) non sarebbe sempre stato (e come avrebbe potuto?) all'altezza della passione suscitata in anni ben più facili e fortunatamente democratici. Si sostiene infatti, andando parzialmente e pur legittimamente "fuori tema", che l'antifascismo non sarebbe stato di casa nelle stanze della cultura. È in questo varco, e trascurando i restanti novantanove centesimi del volume, che i polemisti odierni del centro-destra, incapaci di uscire dal sempiterno orizzonte del camerata, dove sei ? di antica memoria, si sono gettati. Affannosa è infatti la loro ricerca di studi solidi cui parassitariamente aggrapparsi: le loro falangi, composte più da "ideologi" che da studiosi, difettano infatti di liberali autentici (presenti in verità nel "Polo laico"), e sono costituite in buon numero, a parte il valore aggiunto dei clericali dell'ultim'ora, o da ex-neofascisti che non riescono a liberarsi del terno al lotto Evola - Sorel - Drieu La Rochelle o da ex-stalinisti che, vezzeggiatissimi dai media, rovesciano, in chiave anti-antifascista, sugli insicuri socialdemocratici di oggi e domani, o sui più grintosi azionisti di ieri e l'altro ieri, l'autofobia maturata nei confronti del proprio marxismo-leninismo di un tempo.
Nel libro di d'Orsi, totalmente incolpevole dell'uso che ne è stato fatto, non si discute peraltro, né si potrebbe, di "azionisti". Non si discute inoltre, né si potrebbe, di una cultura fascista particolarmente florida. Lo scatto moralistico conclusivo - che ha qualcosa di provocatoriamente "ultragobettiano" e quindi di "ultratorinese" - è sembrato tuttavia poter capovolgere, o manomettere, l'impianto concettuale del volume. Non sarebbe cioè stata la cultura, pur compromettendosi, a resistere in quanto tale e a tenere le distanze (sul proprio terreno, non ovviamente su quello dell'opposizione politica) dal regime, ma sarebbe stato quest'ultimo a sedurre, attirare, corrompere e inquinare la cultura stessa. È questa un'impressione sbandieratissima dai media ed estremamente sbagliata, oltre che in contraddizione, tra l'altro, con i risultati della ricerca di d'Orsi e con il postulato iniziale che vuole imperfetto il totalitarismo italiano.
Al di là di Torino, su cui però va almeno ricordato ancora l'ottimo Oscar Mazzoleni, Franco Antonicelli. Cultura e politica 1925-1950, pp. 384, Lit 50.000, Rosenberg & Sellier, Torino 1998, altri volumi, affrontando la storia complessiva dei rapporti tra fascismo e cultura italiana, si sono poi aggiunti e hanno ulteriormente alimentato la discussione. Sulla statura morale di quanti nell'Università seppero costituire un'adunata di refrattari è uscito il libro di Helmut Goetz Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, ed. orig. 1993, trad. dal tedesco di Loredana Melissari, pp. 314, Lit 48.000, La Nuova Italia, Milano 2000, dove si narra dei 12 docenti che nel 1931 si rifiutarono di giurare fedeltà, su carta da bollo da L. 5, al regime fascista. L'esiguo numero (12 appunto, cui si potrebbero aggiungere alcuni prepensionamenti volontari e il caso di Borgese emigrato in America) può lasciar supporre una compromissione profonda del mondo accademico con il regime. Il che è formalmente indubitabile. Chi restò tuttavia - fascisti convinti a parte - qualche volta, appigliandosi alla libertas docendi sancita dalla elitaria Riforma Gentile, fu in grado di fare opera di educazione e di aprire indirettamente un fronte interno che poté distanziare la gioventù studiosa e il regime stesso. Il che contribuisce a spiegare il tracollo di consensi, tra i giovani intellettuali e tra gli studenti, davanti alla tragedia della guerra, nella vertigine dei primi anni quaranta. Anche a proposito di questi ultimi, peraltro, utilizzando il concetto di "zona grigia" elaborato da Primo Levi e agguantato da Renzo De Felice, e partendo dal caso di Pavese, si è discusso di cultura e, sulla scorta di Prezzolini, di "apoti", vale a dire di intellettuali disincantati e attendisti, nel libro, certo anch'esso assai interessante, di Raffaele Liucci, La tentazione della "casa in collina". Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945), pp. 204, Lit 25.000, Unicopli, Milano 1999. Sul periodo precedente, e su tutt'altro versante, si è altresì aggiunto un nuovo e importante documento: le lettere tra Giaime Pintor e Filomena d'Amico, C'era la guerra. Epistolario 1940-1943, introd. di Luisa Mangoni, pp. 136, Lit 20.000, Einaudi, Torino 2000.
Allontaniamoci però dal crepuscolo e torniamo al fascismo maturo. Promette più di quel che pare mantenere (vi si discorre quasi esclusivamente di cinema e letteratura), e contiene anche qualche imperfezione, il libro, pur da non trascurare, di Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, trad. dall'inglese di Maria Luisa Bassi, pp. 354, Lit 38.000, il Mulino, Bologna 2000. Al centro vi è la tesi, empiricamente ben esposta, della piena esistenza di una cultura fascista. Non sono inoltre mancati interventi su tematiche più circostanziate. Come l'assai interessante volume antologico La filosofia italiana di fronte al fascismo. Gli anni Trenta: contrasti e trasformazioni, a cura di Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni, pp. 242, Lit 29.000, Unicopli, 2000, con contributi, tutti già noti, di Eugenio Garin, Emilio Agazzi, Michele Ciliberto, Ornella Pompeo Faracovi, Italo Mancini. E come Un legislatore per l'arte. Cipriano Efisio Oppo. Scritti di critica e di politica dell'arte 1915-1943, a cura di Francesca Romana Morelli, pp. 510, s.i.p., De Luca, Roma 2000. Si può arrivare alla conclusione che, pìù che essere un produttore diretto di cultura, il regime seppe avvalersi, talvolta con qualche evidente sospetto, dei grandi intellettuali fascistizzatisi (due nomi su tutti, Gentile e Volpe, ma l'elenco potrebbe continuare). Seppe soprattutto essere un abilissimo organizzatore culturale. Su questo tema si veda l'assai utile studio di Gisella Longo L'Istituto Nazionale Fascista di Cultura. Gli intellettuali tra partito e regime, pp. 320, Lit 30.000, Pellicani, Roma 2000. Il fascismo, almeno quello più radicale, si rese tuttavia conto di lavorare involontariamente per la "fronda" intellettuale e di non riuscire a creare una cultura autenticamente fascista e autonomamente libera dagli influssi delle culture politiche precedenti. Cercò di porvi riparo, quando era ormai troppo tardi, e quando si respirava un'aria di grande incertezza. Fallì nell'impossibile impresa. Racconta questa vicenda il volume di Alessia Pedìo La cultura del totalitarismo imperfetto. Il Dizionario di politica del Partito Nazionale Fascista (1940), pp. 290, Lit 32.000, Unicopli, Milano 2000. Si volle, con questo massiccio Dizionario (una grande impresa editoriale), andare ben oltre l'inaffidabile Gentile. Si definirono nella premessa (di Fernando Mezzasoma) "valorosi camerati" i collaboratori dell'impresa. Si dovette tuttavia ricorrere, oltre che a elementi ultrafascisti, a personalità come Jemolo, Cantimori, Chabod, Morandi, Maturi, Valitutti e altri. Tutti in egual guisa "compromessi" ? Non sarebbe proprio interessante questa chiave d'accesso e servirebbe solo alla bassa cucina di oggi. Quel che emerge è la conferma che la cultura dell'età fascista fu fascisticamente ancora più imperfetta del totalitarismo che avrebbe voluto, senza saperlo veramente fare, sussumerla e fagocitarla.
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