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Camarrone, la cronaca si fa epica e forse ci scuote…
Scrivere libri è anche o, soprattutto, rischiare. Premere forte il piede sull’acceleratore, andare oltre il rassicurante orizzonte delle acque chete. E se nell’ultimo libro di Davide Camarrone, giornalista televisivo e narratore, ci sono echi alti, altissimi – biblici, mitici, letterari, shakespiriani ma non solo – vanno considerati per quello che sono, omaggi e non certo sfide, debiti incantati e non vette da scalare. Rischia, ma raccoglie, Camarrone, vergando un testo, Tempesta (95 pagine, 10 euro), che è il suo più maturo, un frutto che ha raccolto una casa editrice, Corrimano, nata da pochi anni, ma che coerentemente s’è caratterizzata per la scelta di testi letterari che non puntano a facili scorciatoie. Vanno controcorrente e non sarà semplice, per via della distribuzione, sbarcare nelle librerie di tutto il territorio nazionale, ma anche per questo andrebbero sostenuti, i suoi giovani editori.
La Tempesta di Shakespeare è una preparazione alla morte, è l’accettazione della fine e che tutte le cose hanno un tempo. Il libro di Camarrone, secoli dopo, assume una connotazione parallela. E alcuni dei personaggi shakespiriani ritratti a Pantelleria, anzi a Bintarriah, sono trasfigurati: il contraddittorio spiritello Ariel, il deforme Caliban, forse anche più contraddittorio di Ariel e in cerca di vendetta, ma soprattutto Prospero e la bella Miranda, sua figlia (il personaggio che per umanità e sentimenti è più facile amare). La vicenda galleggia senza tempo, pur essendo molto attuale. S’infrange sugli scogli dell’isola un’imbarcazione, una di quelle che cariche di uomini (e dei non uomini che li considerano merce) solcano il Mediterraneo. I flutti della tempesta hanno scaraventato gente sulla terraferma, per cui non ha pietà il loro aguzzino, il Timoniere, personaggio nuovo rispetto a Shakespeare. Anche Prospero, che è un trafficante di uomini, è stato un migrante, è naufragato a Bintarriah, ma la sua esistenza probabilmente gli ha insegnato poco. Le agonie e le morti, evocate senza sconti e che seguono il naufragio, prendono alla gola. E il racconto prosegue, spietato e reale, con voce e punto di vista di volta in volta affidato a un personaggio.
Un linguaggio lirico, musicale e arcaico, certe immagini che rimandano, più che a Shakespeare, a Verga, o qualche immortale classico del mare. Può anche apparire ostica la lettura di Tempesta, ma serve un po’ di tempo per sintonizzarsi sulla stessa linea d’onda del narratore, che tratteggia – inevitabilmente – un racconto politico, della politica che interesse agli uomini liberi e alle menti aperte: diffonde idee, pone domande e riflessioni, Camarrone, contro paura, ignoranza, rifiuto, egoismi, odio, contro gli slogan disgustosi che escono di bocca a miracolati della politica e che vengano amplificati dal megafono di una stampa che, evidentemente, non sa trovare storie migliori o persone più interessanti da raccontare. In Tempesta si legge di vita e morte, di pentimenti e disperazioni. La cronaca quotidiana, che si rischia di guardare impassibili e anestetizzati, si fa epica e forse riesce ancora a scuoterci, in mezzo al guado della barbarie.
Recensione di Giovanni Leti
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