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Tamerlano il Grande, qui pubblicato nella felice versione di Rodolfo Wilcock, fu la prima opera di colui che Swinburne definì «il pioniere più ardito e più ispirato di tutta la letteratura inglese». Swinburne scriveva con l’entusiasmo di chi sta assistendo a una scoperta. Da allora, sembra che ci siamo andati riavvicinando sempre più all’opera di Marlowe. E ce n’è ragione: troppe componenti, in quel repertorio dell’incandescenza e dell’eccesso, corrispondono ad altrettanti punti scoperti e affini del nostro presente. Innanzitutto la concezione del teatro: il teatro di Marlowe ignora ed esclude quella riduzione dei fatti a una convenzione psicologica che sarà, in diverse forme, il tratto dominante nel teatro europeo delle età successive, fino all’esaurirsi del naturalismo: all’inverso, in Marlowe la psicologia è totalmente assorbita negli eventi, e l’azione, a sua volta, è tutta quanta nel potere esorbitante della parola. Più che individualità psicologiche, o innocui caratteri, i suoi protagonisti sono manifestazioni di potenze naturali – e da ciò deriva il loro aspetto superumano e iperbolico. L’intrigo delle sue tragedie sembra seguire gli scontri, le separazioni, l’unione e l’annichilazione degli elementi nella natura. In questo grande poeta, dotto e speculativo, agiva una furiosa carica arcaica; il fasto del suo verso si presenta come uno sfrenato sacrificio, una autocombustione delle parole, uno sperpero propiziatorio; la sua enfasi è preistorica e cerimoniale. Solo la ruota del destino segna il tempo del suo teatro e le sue invenzioni tendono ad assimilarsi alla vita biologica, a un semplice apparire, culminare e scomparire. Paradigma di questo processo è la prodigiosa vicenda del Tamerlano.
Rappresentato per la prima volta nel 1587, Tamerlano il Grande fu pubblicato nel 1590.
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Mi aspettavo la storia di Tamerlano il Grande mentre questo è una piece teatrale. Non mi ero informato a sufficienza. Mea culpa!
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