Strano libro questo di Alessandro Moscè, Il talento della malattia, che non ti aspetteresti da uno scrittore che nasce poeta e disciplinato studioso di letteratura (suo il saggio uscito nel 2004 da Marsilio Luoghi del Novecento, con saggi su Pavese, Volponi, Umberto Piersanti), sul mondo del calcio e il mito di un calciatore da poco scomparso, Giorgio Chinaglia, "Long John", soprannome che viene direttamente dalla marca di whiskey che beveva, una delle sue tante trasgressioni. Strano perché ha una forma ibrida che mescola romanzo autobiografico, oggi si direbbe autofiction, reportage e giornalismo di tipo sportivo, quasi da repertorio documentaristico, ma anche una biografia parallela di uno sportivo e di una squadra, la Lazio di Maestrelli, atipica e reazionaria, anche se pare molto amata anche dall'ultimo dei leader comunisti: Enrico Berlinguer. Quando il libro comincia, siamo nei primi anni ottanta, gli anni settanta si sono chiusi con la loro indelebile scia di sangue, una crepa profonda sembra sprangare una pagina della storia più prossima e aprirne un'altra, forse ancora più dolorosa. La prima traccia di questo palinsesto di storie che fanno la parte più corposa è appunto quella della prima persona, l'autore stesso, che vive la sua malattia in uno stato di "follia sana" convincendosi che il suo mito torna in Italia dall'America, dove giocava con il Cosmos, per salvarlo. Gli parla, lo vede, lo immagina vicino a sé. Così ben presto diventa un romanzo di formazione a tutti gli effetti, quello di un giovane della provincia marchigiana nell'apprendistato alla vita visto però in luoghi cupi, privatissimi: l'ospedale, la scuola, gli interni di famiglia in bianco e nero, a parte il calcio è una realtà molto esistenzialistica quasi spogliata di attualità. I riti sono sempre quelli eterni dei piccoli luoghi. Moscè racconta "senza rete" e a microfono aperto, con pathos e spietata sincerità, però anche con la sapienza di chi conosce le parole e dalla vita vera riesce a trasformare le sequenze in altrettanti pezzi di romanzo, la verità in finzione, inevitabilmente, scansando l'autobiografismo sterile senza stile. Alla presa diretta della malattia, un morbo raro come il sarcoma di Ewing, un tumore osseo che non lascia scampo, fatto di lunghe degenze e altrettanto tediose convalescenze, alla sofferenza fisica e al dolore psicologico si alterna l'epica del calcio e tutta l'aneddotica che contraddistingue il racconto del tifoso, che troviamo in molto cinema e in molta letteratura, anche nella realtà verbosissima, spezzoni di partite e quell'allenatore, Tommaso Maestrelli, capace di ricomporre nello spogliatoio a ogni partita una squadra di individualisti destrorsi come appunto "Giorgione", ma anche Re Cecconi e Wilson, che a un certo punto del libro l'autore incontra in una Roma estiva, afosissima. Non dirò del lieto fine, ma a volte nella vita, e anche in questo libro, la realtà più prossima e la sua immaginazione si incontrano, realtà e finzione si intrecciano, la menzogna o l'autoinganno diventano verità, tanto che quel mito che per molti di noi era un po' fasullo, questo centravanti scomposto come un toro scatenato e fascistoide, diventa per l'autore (che in questo caso è anche il personaggio e la persona che vive la storia e in "prima" la racconta) una mitologia catartica, capace di fare il miracolo. Il libro si chiude con il suo refrain, quello del grido liberatorio dello stadio: "Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia!". Angelo Ferracuti
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