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romanzo meraviglioso, scritto benissimo con quel tocco di erudizione che non guasta. Il protagonista è il grande Marcel Proust che guida un giovane fattorino a crescere scoprendo le sue potenzialità. Le descrizioni della francia di primo novecento e del clima sociale è perfetto. Appena accennata con tatto e sapienza la problematica legata alla passione.
Questo romanzo è una goduria per proustologi, proustomani ed anche per tutti coloro che, pur non avendo letto la Recherche, sono disposti a lasciarsi incantare dall'Angelo della Notte. Chi invece la Recherche l'ha letta ritroverà in queste pagine la voce di un caro amico, che Leprince sa resuscitare con grande maestria. Si sente in ogni riga l'amore che l'autore nutre per questo mago che "non ha avuto le nostre stesse esperienze di vita, ma raccontando le sue, le nostre appaiono sulla carta".
Recensioni
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Parlando in un’intervista della genesi di questo romanzo, Pierre-Yves Leprince (classe 1940) ha detto: “Dal 1960, io ho vissuto dentro l’opera di Proust…”. È un’affermazione singolare, perché Leprince non è un filologo o un biografo che abbia trascorso anni e anni a decifrare i manoscritti dell’autore di Alla ricerca del tempo perduto. Ha alle spalle una lunga e brillante carriera di scenografo teatrale; nell’opera di Proust si è dunque installato per passione e da dilettante. Per Leprince Proust è un cacciatore di indizi, un detective capace di imprigionare la verità in una rete di analogie invisibili allo sguardo prevenuto dei suoi contemporanei. L’esegeta non professionista ci offre del romanziere un’immagine parziale e un po’ forzata; ma quest’immagine programmaticamente non obiettiva risulta più stimolante delle ricostruzioni diligenti di molta critica accademica. Leprince ha scelto la forma narrativa e nelle pagine di Il taccuino perduto ha affrontato la scommessa di fare del suo autore preferito un personaggio a tutto tondo, che sotto i nostri occhi osserva i comportamenti degli esseri umani che lo circondano e ne decifra con acutezza incomparabile le motivazioni nascoste e le segrete finalità. Non è la prima volta che Proust figura come personaggio in una finzione: nel 2001 Philippe Besson, in En l’absence des hommes, fece di lui l’interlocutore di un adolescente che vive una tragica passione con un militare destinato a morire nel primo conflitto mondiale. Il Proust di Leprince, però, ha, rispetto a quello di Besson, una voce infinitamente più riconoscibile e precisa: modellata con orecchio finissimo sulle pagine del suo epistolario, questa voce è il vero punto di forza dell’opera, il fondamento della sua credibilità e uno dei suoi tratti più accattivanti. Lo sfondo del romanzo è l’Hôtel des Reservoirs, a Versailles, dove Proust soggiornò in effetti parecchie volte. Siamo nel 1906 e il futuro romanziere, ancora scosso per la morte della madre, si è installato in quell’albergo vecchiotto e lussuoso in attesa che sia pronto a Parigi il nuovo appartamento dove andrà a stabilirsi. Fin qui l’intreccio del romanzo segue alla lettera la realtà biografica. La voce narrante, però, che è quella di un poliziotto quasi centenario che rievoca episodi della propria adolescenza, non tarda a tessere intorno al dato storico la tela di un ricco feuilleton, popolato di spiritiste inglesi, infidi camerieri dagli occhi gialli, lord perversi e pallide cameriere misteriose. Al centro dell’intreccio, Proust fa luce su un assassinio dai retroscena erotici guardando al futuro: “Scriverò – confida al narratore – un grande libro in cui mostrerò, alla maniera di un detective, come un personaggio riesce a sbrogliare la matassa ingarbugliata di ciò che accade attorno a lui e dentro di lui, risalendo alle cause, cucendo e scucendo il tessuto della verità”.
Recensione di Mariolina Bertini
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